Sneak JB Fellowship

Votes taken by JimMorrison84

  1. .
    trovo curiose queste coincidenze:

    Frati (chiesa), Montemurlo ritorna insieme a Prato, mantelli (lavorazione tessile), Tintori ritorna proprio Via dei Tintori, il riferimento al fumare (le canne fumarie)


    purtroppo da google non si riesce ad ottenere foto da altre prospettive, ma possiamo provvedere per saperne qualcosa di più.
  2. .
    Riprendo un po' il lavoro su questo tread, per tutti i nostri lettori, sul discorso che ho ultimamente riportato in auge...
    Ovvero il collegamento telecomandi e schede Telcoma usate nelle stragi di Capaci e Via d'Amelio, misteriosamente donate da qualche entità a Cosa Nostra per aiutarla a svolgere quello che non era riuscita a compiere fino ad allora.
    Una incredibile coincidenza che la sede della società che li ha prodotti era a Fragare della Battaglia, porzione di San Biagio di Callalta, teatro di uno degli attentati del mai identificato UnaBomber nel 2003.
    www.repubblica.it/online/cronaca/nutelladue/sfida/sfida.html
    UnaBomber, di cui si ha il DNA (sempre che non abbia anche qui depistato, e posto una finta prova, vallo a sapere), che ha operato dal 8 Dicembre del 1993 al 6 Maggio del 2006, compiendo una serie lunghissima di attentati esplosivi, di "Boobies Traps", come le chiamerebbe Zodiac, o un militare addestrato...
    Trappole che ricordano sempre l'acqua, tubi idraulici, bottiglie e pennarelli abbandonati su un fiume etc etc..
    Unabomber che amava sfidare gli inquirenti...che si è intrufolato travestito con barba finta in tribunale, mettendo un ordigno nella stanza accanto di chi lo indagava...
    www.repubblica.it/online/cronaca/b.../pordenone.html

    ed infine ciliegina sulla torta:

    www.repubblica.it/online/cronaca/l...o/cimitero.html

    Nel copione poteva mancare l'attentato al cimitero?
  3. .
    Abbiamo fatto le stesse osservazioni ;)
    Hey ti sono state poste diverse domande da vari utenti (a cui mi sono associato) ;)
  4. .
    www.ilgiornale.it/news/cronache/mo...ta-1943832.html


    Mi rifiuto di pensare che Joe Bevilacqua possa essere sia Zodiac che il Mostro di Firenze”, taglia corto Rodelli. “Zodiac uccideva per sopraffare le vittime e non era un predatore sessuale, mentre il mostro commetteva omicidi di rabbia a sfondo sessuale”, spiega ancora. “L’ipotesi che un assassino con le caratteristiche di Zodiac fosse coinvolto in omicidi di questo tipo è altamente improbabile”, chiosa l’esperto Usa. Secondo Rodelli, Bevilacqua “è automaticamente escluso dal profilo di Zodiac”, ma anche Pacciani “non è il mostro di Firenze”.


    Chi si vuole cimentare a fare a pezzettini queste affermazioni?
    Non, so, a me così su due piedi, me ne sono venute diverse...ma questo Rodelli ha studiato Zodiac? Sa cosa è successo a Lake Berryessa visto che parla di piquerismo?
    O qualcuno lo ha pagato per sparare sciocchezze a muzzo...
    O magari si è scordato (ammesso che lo ha mai saputo) che Zodiac in una delle sue lettere ha chiaramente affermato di voler fare a pezzi le sue vittime e spargerne le parti in giro...
  5. .
    CITAZIONE (dedobiker @ 5/5/2021, 18:03) 
    Questo la nostra ultima fatica. Spero vi piaccia

    www.youtube.com/watch?v=Kx2hNRIQ6Rw

    Grandi Dedo e Luca, davvero un ottimo lavoro, nel metodo di comunicazione, e nel modo in cui ponete le giuste domande, in particolare su questo focus che avete fatto su Piazza Fontana...anche qui, avrei sottolineato anche altri fatti intorno alle faccende che avete riportato, sottolineando la scarsa possibilità che sono frutto del caso, come avete fatto con lo spostamento Falciani-Nettuno, e con la scomparsa del Mdf e la comparsa del Mostro di Nettuno.
    Ma nel modo, vi faccio i complimenti, e vi ringrazio di aver citato questo forum che effettivamente è stata la sorgente di queste ricerche e riflessioni, alimentata dal lavoro di molti, anche se mi sembra onesto ammettere e sottolineare, che è fondata sulle due migliori scoperte che riconosco al mio amico Dedo, frutto del suo coraggio e della sua determinazione, e sono la pista Virgillito che riporta a Joe, e l'omicidio di Anzio vicino il cimitero, dopo che il Mdf ha smesso di agire.
    Per cui applausi da parte mia Dedo, te li meriti ;)
    Come ha detto anche Doc, questo è un ottimo inizio, per iniziare a veicolare le scoperte più importanti, attraverso diverse forme comunicative ;)

    Edited by JimMorrison84 - 5/5/2021, 20:44
  6. .
    CITAZIONE (Giorgiorgiola @ 18/4/2021, 23:20) 
    Il testimone chiave


    Secondo Alfredo Virgillito nella strage di Piazza Fontana è coinvolto un sedicente agente della CIA di nome Joseph, nato nella metà degli anni ‘30. La Procura di Milano ha aperto un nuovo filone di indagini sulla strage e si è rivolta al Ministero degli Esteri per sapere chi potesse essere. La risposta è stata inequivocabile: può essere solo Joseph Bevilacqua, nato a Totowabora (NJ) il 20 dicembre 1935. Già testimone chiave del Processo Pacciani, oggi è sospettato di essere il Mostro di Firenze, Zodiac e un sacco di altre cose.

    La procura di Milano nel 2012 ha dichiarato Alfredo millantatore professionista mentalmente instabile. Io però gli credo e vorrei fare su un piccolo accertamento su Joseph Bevilacqua e controllare se può essere la spia di Virgillito che a metà degli anni ‘90 è dedita ad alcool, cocaina e malaffare.

    Joseph Bevilacqua nella primavera del 1995, quando mancano poche settimane all’inizio del Processo contro Pietro Pacciani, si presenta agli inquirenti con una testimonianza che viene ritenuta importantissima. Nel settembre 1985 ha visto le vittime francesi Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot in via Scopeti, due volte. L’ultima delle quali ha notato anche una “figura” che, con fare furtivo, è sparita in un campo che porta a un bosco che porta alla piazzola teatro del duplice omicidio.
    La sua testimonianza, che trovate su YouTube, sarà ritenuta fondamentale per inchiodare Pacciani agli Scopeti e farlo condannare all’ergastolo in primo grado.
    Vediamo come.


    Stanlio dov’è?

    1994, 6 giugno, Firenze, Tribunale. Quando Joseph Bevilacqua entra in aula e va a sedersi al posto dei testimoni, Pacciani sembra in stato catatonico. Con lo sguardo fisso leggermente aggrottato, il muso stretto attorno all’immancabile stecchino, sbatte appena gli occhietti mentre lo vede passare. Gli sembra di vedere Onlio, così grande e grosso, con quella strana andatura tra il claudicante e il ballonzolante. Quando il microfono si accende e l’omone comincia a parlare Pacciani non ha più dubbi, ora è sicuro: quello è davvero Onlio! E Stanlio? Pacciani si guarda attorno, magari ora entra anche lui.
    Invece no. Che strano, pensa Pietro.

    Pacciani, diciamocelo, capisce solo quelli che parlano la sua lingua, il vernacolo della Val di Pesa, per il resto c’è l’avvocato Fioravanti che oltre al ruolo di difensore ha due funzioni accessorie importantissime: traduce all’imputato in un linguaggio semplice e comprensibile quanto si dice e succede nell’aula, e lo placca (si va dallo schiaffetto sulle mani all’abbraccio fermo e avvolgente) quando il Vampa dà in escandescenze. In più, l’avvocato Fioravanti è anche un discreto mimo, ma questo lo vedremo più avanti.



    L’agente Peppe e l’importanza della geografia

    Bevilacqua entra in aula. Lo vediamo camminare di profilo, quasi di spalle. A osservarlo bene non si può non notare che fa un gesto veloce con la mano: si tocca il naso. Ahi ahi, signora Longari! Alfrè, dici che è per quello? Poi gira di scatto la testa verso la corte, porgendo la nuca alle telecamere.
    Si accomodi prego.
    “Vuol dare le sue generalità?” è l’invito del Presidente della Corte”.
    “Scusi non si sente bene, non si è sentito scusi”. Iniziamo con un chiasmo: ci tiene proprio a dire che è sordo. Lo ripete due volte e con l’impersonale invece che con la prima persona singolare. Il dottor Cal Lightman direbbe che sta mentendo. Ma non siamo su “Lie to me”, lo spettacolo è appena iniziato, stiamo sereni, non facciamo i prevenuti.
    “Mi chiamo Bevilacqua Giuseppe”. Stop, fermiamo subito. Nel 2011 al ministero degli Esteri risulta Joseph e solo Joseph. Adesso Peppe? Invece di dipanarsi la matassa si aggroviglia. Vabbè, proseguiamo.
    “Sono un americano, sono un funzionario di un governo straniero”. Direttore di cimitero faceva brutto.
    “Ah, ho capito, italo-americano immagino… di origine” commenta con divertita sagacia il presidente.
    Per Bevilacqua dev’essere un complimento perché dice “grazie”.
    “Benissimo” replica ilare il Presidente, indeciso se rispondere “Prego”.
    “Senta, dov’è nato?”.
    Oooh, direbbe l’avvocato Bevacqua. Ecco, diccelo Bevilacqua! Giusto perché il filone Virgillito su piazza Fontana ci ha lasciato il dubbio. Totowabora (ma si scrive così?) o Paterson? Shhh, risponde.
    “Io New Jersey che è in Stati Uniti”. Grazie Peppe per la precisazione, hai capito che il Presidente non la mastica la geografia...
    Ok, New Jersey e fin qui c’eravamo già, sia Totowa che Paterson sono in New Jersey. Ma dove esattamente?
    Niente, il Presidente si limita a ripetere “New Jersey”.
    “Sì” conferma Bevilacqua, senza aggiungere altro.
    “New Jersey, Stati Uniti” ha finalmente capito il Presidente. Gliel’abbiamo fatta! Ha localizzato lo Stato, speriamo anche il continente. Sì, ma dove di preciso?
    Il luogo di nascita, niente, lui non lo dice e nessuno glielo chiede. È insolito in un processo.
    Almeno la data di nascita corrisponde a quella riportata dal ministero degli Esteri: 1935, 20 di dicembre. Ho verificato nell’audio della sezione Processi di Radioradicale.it perché nel video di Insufficienzadiprove la data di nascita è tagliata.
    Insomma sono trascorsi 57 secondi da quando è entrato in aula e ci sono già più dubbi di prima. L’unica certezza è che è nato.



    Il “pacco” in tv

    Arriva la fatidica domanda: “Acconsente alle riprese televisive?”
    Dì sì, ti prego! Sì! Sì!
    “No!”. Secco, senza appello. Che ingenui a sperare. Metti che Alfredo sia un fan di “Un giorno in Pretura”, potrebbe scoprire che in realtà si chiama Peppe...
    Niente, dobbiamo accontentarci di una figura seduta decapitata, con la camicia tesa allo spasmo sopra la panza, la cravatta che ogni tanto scopre squarci rotondi tra un bottone e l’altro. E proprio al centro dell’inquadratura che c’è? Il suo “pacco” strizzatissimo dal cavallo dei pantaloni e le mani che un po’ tengono gli occhiali un po’ picchiettano proprio lì. Per quasi 48 minuti.
    Mi sono sempre chiesta perché nella versione attuale del processo su “Un giorno in pretura” manchi l’unico testimone oculare che inchioda Pacciani agli Scopeti il famoso “giorno prima”. Non vorrei fosse per questo.



    Il Mostro al bivio di Sant’Andrea

    Inizia l’esame il Pm, Paolo Canessa. A Canessa riconosco una sola grande virtù, che non è da poco: parla benissimo l’italiano, con lessico semplice e appropriato, scandendo alla perfezione. E infatti Bevilacqua capisce tutto. Nessun problema di audio. Anche per Pacciani non si rendono necessari i sottotitoli.

    Si discute del duplice omicidio nella piazzola di via Scopeti del settembre 1985. Il giorno preciso non si sa perché i periti non sono d’accordo su quale sia la notte del massacro: venerdì 6, sabato 7 o domenica 8. Una matassa fatta di mosche, larve, umidità, temperatura difficile da sbrogliare. L’unico che non ha dubbi al riguardo è Canessa: per lui è domenica.

    All’epoca del duplice delitto, nel 1985, Bevilacqua conferma di lavorare al cimitero dei Falciani, territorio USA la cui area arriva a lambire il tratto di via Scopeti teatro del crimine. Peppe conferma di conoscere bene il punto in cui si è svolto il duplice delitto: “Io passava spesso”.
    Dall’area del cimitero alla piazzola a piedi è una passeggiata. In auto dalla Cassia, su cui affaccia l’ingresso principale del Cimitero militare americano, basta imboccare il ponte degli Scopeti e seguire la strada in salita per raggiungere il bivio di Sant’Andrea: a destra si va a Spedaletto e di lì a San Casciano, a sinistra si va a Chiesanuova e, se si vuole procedere oltre Chiesanuova, sempre sulla stessa strada, si arriva dritti dritti in 5 minuti in un’altra celebre località: Giogoli, dove nel 1983 sono stati massacrati i due giovani tedeschi. Sempre da Chiesa Nuova parte un’altra strada che in 13 minuti in direzione opposta porta dritta dritta a Baccaiano dove il 19 giugno 1982 vengono uccisi Antonella Migliorini e Paolo Mainardi. Potete controllate la triangolazione su GoogleMaps.
    Dopo aver seguito con profitto un corso di logica alla Procura di Milano, dando un’occhiata a questi percorsi dell’orrore mi sento di affermare che anche il mostro di Firenze “passava spesso” dal bivio di “San Andrea” e da Chiesanuova. È Bevilacqua l’unico testimone a piazzare il Mostro in quel bivio, direzione Chiesanuova, dove sta andando anche lui. Ecco, qui gli credo.



    Il primo avvistamento

    “Nei giorni precedenti all’omicidio che è stato scoperto il lunedì 10 di settembre dell’85, lei era passato da quella zona?” chiede Canessa sbagliando giorno: lunedì è il 9.
    “Due o tre giorno prima dell’omicidio, la tragedia - racconta Onlio - io andavo a San Casciano, facevo la ponte degli Scopeti e andava su, alla seconda curvo ho visto la coppia francese, che c’era la ragazza appoggiata ad un albero in costume da bagno, prendeva il sole e l’uomo, il suo ragazzo, stava appoggiato in un sacco a pelo a terra”. E ancora: “La tenda sembrava avanti un po’ in la macchina stava di dietro che sembrava una Peugeot o un Golf. Vecchio, sembrava macchina vecchio”.
    “E la notò questa ragazza? “ è la domanda retorica di Canessa. Stai sicuro Paolì, che l’ha notata.
    “La notavo perché era una ragazza molto carina aveva i capelli neri corti ed un costume da bagno, bikini, nero”.
    E il ragazzo? Peppe dice che era nella tenda e si vedeva solo la testa poggiata sul sacco a pelo.

    Minchia, deve avere scattato una fotografia! Sono passati 10 anni ma la scena osservata con un semplice passaggio in auto è immobile, fissata in tutti i dettagli a futura memoria. Eppure ci sono già dei punti oscuri.

    Il primo è temporale: “due o tre giorno prima dell’omicidio”. Quale giorno, Bevilacqua? Nessuno ci ha ancora capito niente di qual è il giorno del massacro. Persino Wikipedia si tiene larga con un 7-8 settembre.
    Solo Canessa dà per scontato che Bevilacqua usi come riferimento la domenica, perché l’impianto accusatorio si regge su quella giornata.

    Canessa fa lo gnorri e chiede infatti quanti giorni prima della domenica sia avvenuto questo primo avvistamento.
    “Preciso non si può dire ma sembra due tre giorni” è la risposta e aggiunge che “erano le nove e mezzo del mattino”. Singolare che ricordi anche l’orario, tutti quei dettagli, ma non il giorno esatto.
    Il pm tira fuori la foto del posto del primo avvistamento e lui riconosce l’albero su cui era poggiata Nadine a prendere il sole. L’aveva fatta scattare lui un paio di mesi prima durante un giro con gli inquirenti, ci mancava che non la riconoscesse.

    Il secondo punto oscuro: Bevilacqua non dice tutta la verità, come si è impegnato a fare davanti alla Corte, ma solo una parte. Omette infatti di dire che quel giorno con lui in auto c’è la moglie.



    La moglie gelosa e il “dettaglio” mancante

    Nell’articolo “Quel giorno agli Scopeti” della Nazione del 6 aprile 1994 (il processo inizia il 19), che si può leggere nella preziosissima emeroteca di Insufficienzadiprove.it, si racconta la storia in modo un po’ diverso. Nell’articolo non si fa il nome Bevilacqua ma si fa riferimento a una vecchia testimonianza rispolverata dopo anni e a un funzionario americano che la avvalora, in un gioco di scatole di cinesi che non ho capito per niente.
    Comunque il giornalista dice che il funzionario americano, che all’epoca lavorava vicino agli Scopeti, passando in auto con la moglie vide “una ragazza con i capelli corti, scuri, con il bikini nero, che prendeva il sole vicino alla piazzola degli Scopeti. Accanto c’era una macchina con targa francese e una tenda canadese azzurra”.
    Pazzesco, sembra il dottor Spencer Reid di Criminal Minds. Quanti dettagli in un’occhiata, conservati per quasi vent’anni, ma non è che si è fermato? Magari ha rallentato per guardare meglio la ragazza perché nell’articolo leggiamo “Non potè evitare per questa sua occhiata compiaciuta un rimbrotto della moglie”. Tradotto: la moglie gli piazza un cazziatone perché lui non guarda la strada e fissa la francese con la lingua di fuori come Fantozzi.
    Ma non vi siete accorti che in quella marea di dettagli manca qualcosa? Cosa? Il ragazzo francese! La prima volta lui non lo vede. Vede solo la ragazza. Almeno così riporta il giornale.
    Quindi nella versione di aprile 1994 c’è la moglie ma non c’è il francese.
    Due mesi dopo al processo, abracadabra: la moglie è sparita e la testa del ragazzo francese è comparsa a terra sul sacco a pelo.



    Il giorno “dopo”

    L’articolo della Nazione prosegue: “Il giorno dopo l’uomo, stavolta da solo, rivide la stessa donna in compagnia del suo ragazzo”.
    Non dice la “stessa coppia” ma solo la “stessa ragazza” che, questa volta, non è sola e “sta facendo colazione accanto alla tenda piazzata più avanti”.
    Il giornalista riporta un’altra cosa importante: che la rivede il giorno dopo rispetto al giro con la moglie.
    Continuiamo a leggere La Nazione perché ora, subito dopo aver visto la coppia, c’è il fatidico incontro.
    “Al bivio di Faltignano, poche centinaia di metri oltre, scorse un uomo sui 50 anni, di corporatura robusta, capelli pettinati all’indietro, del colorito di chi è avvezzo a trascorrere molto tempo nei campi. Sentendosi osservata questa persona si voltò di scatto. Pochi attimi insufficienti forse per un riconoscimento certo, ma quella fronte e quel naso aquilino al testimone americano, quantomeno, ricordano quelle del Pacciani”.



    Il secondo avvistamento

    Se sul primo avvistamento abbiamo versioni discordanti, sul secondo la nebbia si fa più fitta.

    “Poi li ha visti ancora?” chiede Canessa.
    “Sì, l’ho visto un po’ più avanti, la seconda volta, più alto sulla strada, più vicino a San Andrea e c’era più o meno la cresta della salida… c’era forse due giorni dopo”.
    Come due giorni dopo? Il giornale ad aprile riportava un’unica data certa: “il giorno dopo”. Un’altra incongruenza. Appena si prova a fissare un paletto temporale, ecco che bisogna spostarlo di nuovo. Con quel “forse” che rende impossibile fissare alcunché.
    Canessa continua a tirare l’acqua al suo mulino della domenica: “se prima era due o tre giorni… la prima volta sul giovedì, la seconda volta sul sabato”.
    “E’ possibile - gli concede Bevilacqua - giorni precisi non ricordo”. Bevilacqua non pronuncerà mai la parola domenica nè il nome di nessun altro giorno della settimana.



    Il Quesito della Susy

    Vorrei provare a ricapitolare le informazioni raccolte finora per capire quando Bevilacqua è passato e ripassato da via Scopeti perché l’unica certezza è che è passato di mattina. Peppe fornisce le seguenti indicazioni temporali: due-tre-giorni-prima di una data (quella del delitto) che va da venerdì a domenica, uno-due giorni-dopo rispetto a questo due-tre-giorni-prima. In altre parole, è come il Quesito della Susy sulla Settimana enigmistica.
    Vediamo: se l’omicidio è avvenuto tra venerdì e domenica e il testimone passa la prima volta due-tre giorni prima del delitto e la seconda volta uno-due giorni dopo la prima volta: quando è passato il testimone? Quando è avvenuto il delitto? E se la prima volta il testimone era con la moglie e ha visto solo la donna francese, mentre la seconda era solo ma era la donna francese a essere in compagnia, chi c’era davvero? Io non ce la faccio, provateci voi, mi sa che è il caso di chiedere una consulenza alla Procura di Milano.



    La preoccupazione di Peppe

    Torniamo in aula. Viene mostrata una foto, scattata sempre mesi prima su indicazione di Bevilacqua, della tristemente famosa piazzola.

    “Ecco, lei cosa vide quella mattina? La seconda volta?” scandisce Canessa.
    “La seconda volta mi è rimasto un po’ impresso perché guardando loro… passare per la strada… tu vedevo… erano troppo scoperto… Si vedeva troppo dalla strada, macchine che passava di notte tu potevi vedere… loro non potevano dormire... qualcosa…”.
    Peppe la seconda volta è preoccupato quindi. Teme che i fari notturni delle auto alterino il ritmo sonno-veglia della coppia, è come se avesse voluto consigliare loro di spostarsi in un angolo più riparato, meno visibile dalla strada per una delicata questione di privacy. Molto sensibile e premuroso, devo ammetterlo.



    Il lapsus e la colazione saltata

    “E lei cosa vide questa seconda volta? E cos’era mattina di nuovo?” chiede il Pm.
    Il teste risponde ridacchiando: “Sì, tutto non ricordo perché è un po’ di anni fa.... “.
    Su su, non fare il finto modesto. Noi non ricordiamo cosa abbiamo mangiato esattamente a cena ieri, mentre tu dopo 10 anni ricordi colore della tenda, del bikini, modello e targa della macchina, taglio di capelli, orario. Che invidia, Peppe.

    “Persone ne vide? La ragazza e il ragazzo li vide?” chiede Canessa.
    “L’ho visti tutti e due quel giorno”. Come “quel giorno”. Perché, il giorno prima non li avevi visti tutti e due?
    Figuriamoci se Canessa approfondisce il lapsus, si assicura solo che il teste confermi che “sicuramente erano la stessa auto e gli stessi ragazzi”. E basta, nessun altro dettaglio come nel caso del primo avvistamento della tenda. Sparisce, ad esempio, la colazione della coppia vicino alla tenda. Dettaglio riportato due mesi prima nell’articolo della Nazione.



    Prima-dopo e nord-sud

    “Questa seconda volta vide qualche altra cosa?” incalza Canessa che vorrebbe arrivare subito a quello che gli interessa: l’incontro con l’uomo corpulento con quella fronte e quel naso così indimenticabili.
    Riposta: “No questo non ricordo, no. So che… ricordo la mattina, prima, dopo, che io passavo la strada andava a San Andrea…”.
    Eh?! Non ricordi “questo”? Ma Canessa non ha detto niente, t’ha chiesto solo se ricordi altro, l’ha capito anche Pacciani. E poi la mattina “prima-dopo”, che vuol dire? Che poteva essere notte o pomeriggio? Aiuto, mi sto perdendo. Ho capito solo che la prima volta che passa dal bivio con la moglie svolta a destra, verso San Casciano. La seconda volta invece è solo e al bivio gira a sinistra, verso Chiesanuova.

    Canessa ha il cervello più fino del mio e capisce tutto quello che dice Peppe tranne, stranamente, dov’è Sant’Andrea. Forse ci vuole andare a cena dopo l’udienza perché chiede a Bevilacqua: “Cioè? San Andrea in direzione nord rispetto…”
    “Nord, andavo a nord - si affretta a rispondere - passava da San Andrea, arrivato l’incrocio dopo San Andrea andava a destra per andare a Chiesanuova”.
    Certo, Peppe, che se al Cimitero militare le indicazioni stradali le davi così, chissà dove li mandavi i turisti, eh! Come a Nord! Tu stai percorrendo via Scopeti in direzione sud, verso San Andrea.

    Ricapitolo un attimo perché dobbiamo aggiungere qualche variante al Quesito della Susy: la mattina prima-dopo e la direzione nord-sud. Potrebbe essere l’enigma più complicato di tutti i tempi. Alla Settimana Enigmistica hanno fatto sapere che i crittogrammi di Zodiac a confronto sono roba da dilettanti.



    L’incontro in via di Faltignano

    Veniamo all’incontro indimenticabile con “quel naso e quella fronte”.
    Ecco il racconto di Bevilacqua in aula: “Due/trecento metri de l’incrocio c’è un campo aperto, mi fermai perché m’è rimasto sorpreso che ho visto uno in divisa, sembrava in divisa marroni, tipo forestale o Anas, io lavorando là da anni canoscievo quasi tutti e m’è rimasto perché non canoscieva questa persona. E mi fermai accanto alla strada, con mia macchina, lo guardava questa persona che aveva più o meno la diecina di metri da me, questa persona dopo che, penso che rese conto che io lo guardavo sceso e è andato via di quella zona là, è entrato più o meno in campo verso il bosco che è dietro San Andrea”.

    Bene, ricapitolo. Al Bivio di Sant’Andrea Bevilacqua è solo e svolta a destra, su via Faltignano, diretto a Chiesanuova. Qui, dopo 200-300 metri, sulla destra c’è una piccola strada sterrata che si apre un campo agricolo. È su questa stradina che il testimone vede una divisa “marroni”, a dieci metri di distanza e si rende conto con sorpresa che non la canosce. Alt! Inchioda con la macchina e si ferma. Lui canosce tutte le divise: sa che quelle “marroni” (quel colore indistinto tra marrone, grigio e verde) sono dell’Anas o della Forestale e si sorprende di vedere che quel tizio vestito marroni sia uno sconosciuto.
    Poi l’imprevisto: la divisa, sentendosi osservata, prende il largo “in un campo”, diretta “verso il bosco”.
    Canessa mostra la foto, sempre scattata poche settimane prima con la consulenza artistica di Bevilacqua. Si vede il punto dell’avvistamento della divisa marroni e poi una freccia che indica la direzione presa dalla divisa. Il teste non ha nemmeno bisogno di fingere di riconoscere la situazione della foto perché sotto c’è la didascalia che dice tutto. La didascalia viene subito coperta, ma a che serve con un teste che ha quasi scattato lui la foto e ha dato prova di avere la memoria eidetica del dottor Spencer Reid?
    L’avvocato Bevacqua protesta infatti per la sceneggiata e invita a chiedere al testimone cos’è quel punto da cui parte la freccia.



    A spasso nei boschi

    Risposta: “Tu scende quella strada abbastanza, 4/500 metri e portavo in direzione dov’era lì la tenda di francesi”. Bevilacqua sta dicendo che la divisa, a cui ha visto fare pochi passi verso il campo, imbocca la strada che porta alla tenda dei francesi.
    “Ohoo, ha visto! - esclama Canessa come se avesse fatto punto - Lei lo sa perché conosce quella strada”.
    “Io passavo dai quei boschi migliaia di volte” è la straordinaria risposta.
    Ma non lavora in un cimitero? Perché è sempre a sto bivio di San Andrea, una volta a sinistra e un’altra a destra, e va continuamente a spasso nei boschi? Perchè quando vede una divisa si ferma a controllare? Perchè mentre vede una casacca su via Faltignano gli viene subito in mente la tenda dei francesi e come arrivarci? E come diamine avrebbe fatto quella casacca, se non era della zona (tanto sa non essere canosciuto da Peppe che canoscieva tutti), a sapere che da lì si arrivava alla tenda? Perché diamine a nessuno viene in mente di chiederglielo?
    Perché sono tutti concentrati su quella divisa/casacca che finalmente comincia ad avere un volto. O quasi.



    Il naso con i capelli

    “Ecco, lei ricorda le caratteristiche somatiche di questa persona o no?” chiede Canessa.
    “No, ricordi che mi toccava che mi stava a 10/15 metri, non so preciso, c’era il profilo del naso ed i capelli sopra”
    Traduco: da 10/15 metri (prima erano 10, ora si allontana) vede un naso di profilo con dei capelli sopra.

    Canessa chiede: “Era magro, era grosso?”. Il naso?
    “No era una persona più o meno robusto” risponde Bevilacqua che di panza se ne intende.

    Grazie alle domande di Canessa scopriamo che Bevilacqua quel naso, visto di profilo pochi secondi di 10 anni prima, lo ha riconosciuto tra le foto mostrategli della polizia nel 1994, pochi mesi prima.
    Minchia e che era, il naso di Cyrano de Bergerac?
    No, di Pacciani! Uno che Bevilacqua (nel 1994!) non canosceva. Ma come, tutta Italia lo conosce da anni: è il 1991 quando Pacciani riceve l’avviso di garanzia per i delitti del Mostro. Nella primavera del 1994, quando salta fuori il funzionario americano, chi non canosceva il contadino di Mercatale? Solo Bevilacqua. O almeno così dice a Canessa.



    Il ricanoscimento del Vampa

    Arriva il momento clou, la spannung.
    Canessa: “Oggi lei in quest’aula vede qualcuno che, sia pure con le sembianze di oggi, assomiglia a quella persona?”
    Peppe: Sì.
    “E chi è?” chiede Canessa mentre tutta l’aula e anche noi a casa siamo col fiato sospeso. Metti che indica un altro.
    Peppe: “Signore lì accanto all’avvocato”

    Pacciani, gomiti sul tavolo, stecchino in bocca, ha lo sguardo attonito di chi si domanda stupito perché Onlio stia raccontando da oltre dieci minuti di aver visto un “naso con dei capelli” uno-due-giorni dopo due-tre-giorni prima del secondo weekend di settembre del 1985. A un certo punto stacca un gomito dal tavolo. Perchè Onlio lo sta indicando? Si gira subito dall’avvocato Fioravanti che ha già preparato i sottotitoli. “Pietro, - gli dice - il testimone sta dicendo che quel naso coi capelli sei tu!”.

    Il Vampa si scalda. Prima con l’indice poi con il palmo della mano teso come allo stadio inizia a indicare Onlio e si legge un “infame” sul labiale. L’avvocato Fioravanti gli fa una ramanzina con l’indice e il pollice uniti mentre assieme a Bevacqua, con una serie alternata collaudata di schiaffetti e pacche, provano a tener buono il Vampa, scatenato in un linguaggio non verbale eloquente: ma che cazzo vuole Onlio da me?

    “E ci vuole spiegare come mai lo riconosce come questa persona? Quali sono le caratteristiche somatiche che gli assomigliano?” gongola Canessa.
    Sotto lo sguardo inviperito del Vampa, il finto Onlio spiega: “Il naso, i capelli ...”.
    A questo punto il Vampa, sfuggito al placcaggio degli avvocati, fa un gesto eloquente verso il basso e dice qualcosa in vernacolo che corrisponde a “... E da sta minchia”.
    “...dove c’è la faccenda sopra” prosegue invece Bevilacqua.
    Il Presidente lo aiuta: “L’attaccatura?”
    “La stazzatura di qui davanti, sì”, conferma il teste.
    “Come lei pressappoco” nota il Presidente che mai più nel processo mostrerà una simile arguzia.

    Apre il controesame la parte civile: l’avvocato Colao, che forse ha letto la Nazione, chiede se il misterioso individuo aveva il colorito di uno abituato a stare all’aria aperta.
    Peppe conferma: “faccia un po’ rosso.”

    Tocca alla difesa. Parola all’avvocato Bevacqua. È una delle mie parti preferite, Alfrè, stai attento anche tu.



    Il ‘68 che non ti aspetti

    L’avvocato Bevacqua è uno che va subito al sodo. Si alza di scatto, si riaggiusta la toga sulle spalle e mentre sistema il microfono fa finalmente la domanda che ci interessa, Alfrè. E la fa veloce, lui non parla lento e scandito come Canessa, parla spedito.

    “Senta da quanti anni lei è in Italia?”
    “26 anni” risponde Bevilacqua.
    Bevacqua in una frazione di secondo fa il calcolo: 1994-26=1968. E fa la domanda che Peppe non si aspetta:
    “Quindi anche nel ’68 c’era in Italia”
    “Si”.
    Mi dispiace Peppe, una data certa l’hai dovuta dare, l’avvocato ti ha preso in contropiede: tu eri chiamato a rispondere solo sul secondo weekend di settembre 1985 e invece guarda un po’ come va la vita. Ti ha fregato alla grande.

    Il 1968 è una data importante per due motivi. Per le indagini del Mostro perché è l’anno del primo omicidio (collegato agli altri solo nel 1982 dopo il duplice delitto di Baccaiano, quando si apre la pista sarda). Ma anche per quelle relative al filone di indagini su Piazza Fontana scaturito dalle rivelazioni di Alfredo Virgillito. Rivelazioni che Alfredo avrebbe raccolto da un misterioso agente Joe. Il fatto è che questo agente, secondo il nostro ministero degli Esteri consultato dalla Procura di Milano, puó essere solo una persona e solo una: Joseph Bevilacqua, nato a Totowabora in New Jersey il 20/12/1935. Peppe, insomma, o comunque si chiami davvero. La Procura aveva escluso fosse lui per una serie di ragioni, tra le quali spiccava il fatto che risultasse in Italia solo dal 1974 (per Virgillito l’agente Joe era in servizio nel Belpaese almeno dal 1967). Peppe conferma che era in Italia giá prima del 74: nel 1968. Ecco una cosa che il Ministero degli Esteri aveva taciuto o, meglio, non aveva riportato perchè alla Procura di Milano interessava solo verificare quando fosse stato ufficialmente in servizio presso l’ambasciata americana.

    L’avvocato Bevacqua è rimasto di stucco pure lui per quella risposta e la sorpresa gli fa perdere secondi preziosi prima di passare alla domanda successiva:
    “Bene. Senta e dove stava in Italia?”
    Peppe si riorganizza (non sia mai che dalla sua bocca possa uscire un’informazione precisa) e gioca la carta sordità con cui si era presentato a inizio seduta:
    “‘78? - finge di aver sentito - Cimitero americano”.
    Canessa invita a riformulare la domanda perché il teste non ha capito (ha capito, Paolì, ha capito)



    L’equazione impossibile

    “Quanti anni è che è in Italia lei?” chiede ora l’avvocato.
    Dalle risposte di Bevilacqua viene fuori che è arrivato in Italia nel 1964, è andato via dall’Italia 3-4 volte e ha vissuto in Toscana in tutto, “forse”, 22-23 anni
    “Io quando arrivato prima 1964 ma io andato via d’Italia per lavoro 3/4 volte”.
    L’avvocato Bevacqua prova a rifare il calcolo a mente solo che stavolta è un’equazione:

    (1995-1964) - y = x

    Posto che y sono le 3-4 volte di cui non si conosce la durata e posto che x sono 22-23 anni, da quanto tempo Bevilacqua è in Italia? Gli esperti della Settimana Enigmistica ci stanno lavorando da giorni ma ritengono che, con tutte queste variabili, non sia possibile arrivare a una soluzione corrispondente a un numero reale.

    L’avvocato Bevacqua si arrende alla matematica e cambia argomento. Scopre così che prima di lavorare nel Cimitero, Peppe era nella Polizia criminale. Ma anche in questo caso non dice quando.
    Bevacqua chiede se all’epoca aveva una pistola.
    “No, Sulimmani!”
    Tutta l’aula ride, tranne gli avvocati e noi che ormai ci siamo stancati di un testimone che non dice nulla di certo, che sfuma tutto con “forse” e non dà una data ferma. Non sappiamo nemmeno come si chiama, dov’è nato e quando era/non era in Italia.



    Il naso ha la calvizie

    L’avvocato è nervoso e, palla al piede, va in attacco. Contesta a Bevilacqua la dichiarazione in cui ricostruisce l’incontro col naso-coi-capelli con la casacca verde/marroni Forestale. E gli sciorina velocemente, senza alcun rispetto per la barriera linguistica e la sordità, un verbale dei Carabinieri che ho dovuto riascoltare due volte perché mi ero persa. Joe o’ Sordu invece segue alla perfezione, annuendo con suoni gutturali.

    Poi l’affondo dell’avvocato: nel verbale si legge che “al teste viene mostrata la foto del Pacciani”.

    Quindi non aveva riconosciuto il naso di Pietro tra 3/4 foto, no: gli inquirenti gli avevano fatto vedere direttamente la foto di Pietro. Bravo Bevacqua!
    “ Ma nessuno mi dette il nome del Pacciani” replica Peppe.
    Inizia una discussione che sembra uscita dalla commedia dell’equivoco, ma l’avvocato non demorde: nel verbale c’è scritto che gli inquirenti gli mostrano la foto del Pacciani e Bevilacqua riconosce “la fronte e il naso”. Il tempo e la repentinità della fuga del naso e della fronte non gli consentono “di essere più preciso”. Ma quando è stato preciso in questo processo? Mai.

    L’esame riprende dal giro con la Polizia per fotografare i luoghi degli avvistamenti dei francesi e del naso con la fronte e i capelli che indossava una casacca marroni/grigio/verde. L’avvocato legge speditamente il verbale assicurandosi che Bevilacqua capisca. E lui capisce tutto.
    L’obiettivo dell’avvocato è chiarire che Bevilacqua ha riconosciuto solo il naso e la fronte “con incipiente calvizie” che “gli ricordano qualcosa”. Visto a oltre dieci metri. Dopo dieci anni. Lo so, avvocà, solo per Canessa è normale.



    Fioravanti gentiluomo incompreso

    Ora tocca all’altro avvocato della difesa Pacciani, Fioravanti, che ha alzato timidamente la manina.

    Mentre Bevacqua ha parlato velocemente e con il linguaggio non semplice dei verbali, Fioravanti è un gentiluomo: si è reso conto dei problemi di udito e delle difficoltà linguistiche del teste e quindi ci va piano. Più lento di Canessa, quasi sillabando e accompagnando il tutto con la mimica dei gesti. Sulla pagina del Televideo hanno levato pure i sottotitoli per i non udenti.
    Qualcosa però va storto.

    “Mi scusi, - dice Fioravanti a un centimetro dal microfono e muovendo entrambe le mani come se stesse parlando a un bambino non scolarizzato o a Pacciani - volevo sapere se lei (pausa) pratico di cimiteri (pausa) ha visto quali sono le divise del cimietro di San Casciano, degli addetti del cimitero di San Casciano (pausa) che è vicino a Chiesanuova”.

    “Scusa, mi dice la domanda…” dice Peppe. Ma dai, ha capito anche Pacciani.
    “Lei è pratico dell’ambiente cimiteriale…” ricomincia ancora più lentamente Fioravanti.
    “Si”. Dio ti ringrazio, questa l’ha capita.
    Gasato, Fioravanti ci riprova, sempre adagio: “Mi potrebbe dire, era vicino a San Casciano, di che colore e di che tipo sono le divise degli addetti al cimitero di San Casciano?”
    La risposta: “Avvocato prima cosa il foto non è in colore…e le foglie... le cosi verdi...”. Alfrè, hai ragione, secondo me ha bevuto!
    “No, no, no non ci siamo capiti - puntualizza l’avvocato che ci riprova per la terza volta, adagio adagio con la mimica delle mani - Lei mi ha parlato che quell’uomo era in divisa, con una specie di divisa o Anas o guardiaboschi, una divisa verde, scuro, le divise degli addetti al cimitero di san Casciano, che ogni cimitero ha divise diverse…”. Si però anche tu, avvocà, parti bene e ti perdi nelle generalizzazioni.
    “No, ma cosa vuoi sapere del cimitero?”, ora è Peppe quello spazientito.
    “Voglio sapere se lei ha visto mai un becchino, un addetto al cimitero”
    “Si io si”. Peppe li vede tutti i giorni.
    “Ecco, quelli di San Casciano li ha mai visti lei?” torna all’attacco Fioravanti.
    “No”. No? Siamo sicuri?



    Pinocchio davanti al cimitero

    Fioravanti rinuncia, per fortuna il Presidente è rimasto col dubbio e chiede di che cazzo di colore sono queste divise degli addetti cimiteriali di San Casciano.
    Fioravanti rileva con soddisfazione che sono verde Forestale. Peppe direbbe marroni. Ma scopriamo un’altra cosa interessante: che il cimitero in questione (il Comune di San Casciano ne ha 14!) è quello “nel bivio tra Chiesanuova e San Casciano”, il bivio di “San Andrea”. E la cosa straordinaria è che Peppe lo conosce! Tanto bene da inserirlo nella mappa che disegna agli inquirenti. L’ho scoperta tra le pagine di questo forum e la trovate allegata sotto.

    Se guardate bene, proprio in corrispondenza della freccia che indica San Andrea c’è un piccolo rettangolino con una croce sopra. È la chiesa di Sant’Andrea con annesso cimitero comunale che è davanti alla chiesa e si affaccia sulla strada: impossibile quindi conoscere la chiesa senza conoscere il cimitero. Controllate su Google Maps.

    Bevilacqua passava in quel tratto di strada “spesso”, anzi “migliaia di volte”, osservava, tutti, turisti compresi, si fermava con la macchina per controllare le divise che conosceva “per lavoro”. Parole sue. Posto che il cimitero lo conosce perché ci passa davanti tutti i giorni, possibile che in dieci anni di lavoro in zona non abbia mai visto un addetto cimiteriale lì? Ma voi gli credete? Lo so che negare di conoscere un cimitero di per sè non è un reato ma lo diventa nel momento in cui si configura la falsa testimonianza dell’unico testimone oculare che inchioda Pacciani agli Scopeti.

    Anche per Alfredo Virgillito e le sue rivelazioni sulla strage di Piazza Fontana è importante sapere se Joseph Bevilacqua è un bugiardo patentato.

    Ps: nel verbale della mappa c’è scritto Giovanni Bevilacqua. Spero si tratti di errore del verbalizzante che ha tradotto Joe in Gio, quindi Giovanni. Non vorrei fosse l’ennesimo nome fornito. Manca solo Pinocchio: non è che il naso era il suo?



    Oltre la siepe

    Fioravanti passa ad esaminare le foto del luogo degli avvistamenti e rileva che la piazzola si trova più in alto di un metro e mezzo rispetto alla sede stradale e che, nel settembre 1985, era delimitata da una siepe che in parte copriva la visuale ai passanti. L’avvocato non capisce quindi come si possano vedere macchina con targa straniera, tenda, ragazza in bikini, testa di ragazzo semplicemente passando in auto e chiede a Bevilacqua se sia, per caso fermato.
    “ Ecco ma lei è sceso dalla macchina?”
    “Si, ma io passavo a piedi tante migliaia di volte” risponde incredibilmente Peppe. Fioravanti non coglie che ha detto “sì”.
    E va avanti a dire: “Si, no ma a me non mi interessano le migliaia a me mi interessano quei tre o quattro giorni prima dell’omicidio”. A noi interessano invece, avvocà ci interessano tanto. Ma chiedigli dove cazzo va a spasso invece di stare al cimitero.
    Fioravanti: “E lei in macchina si è fermato su quel luogo?”
    “No ma voleva fermarsi” ammette Pinocchio.
    “Ecco, lei ha visto una ragazza in bikini?”



    L’avvertimento

    Pinocchio si pente e confessa: “Sì, io voleva fermare per la sempli ragione, per dire zona pericoloso, c’era problemi di omicidio e invece io non l’ho fatto e forse sbagliato”.
    Facciamo un passo indietro. Poco fa ha detto di essersi preoccupato perché la coppia di turisti alla piazzola era in una zona scoperta. Vi ricordate? I fari delle auto potevano disturbarli nel sonno. Sembrava si volesse fermare per consigliare loro di spostarsi in una zona più riparata. Ora invece, sono in pericolo, rischiano l’omicidio. Io quest’uomo rinuncio a capirlo, dice niente e il suo contrario.
    Fioravanti sembra incuriosito dalla improvvisa preoccupazione di Bevilacqua.
    “Problemi di omicidio c’erano eh? E quanti omicidi ci sono stati nella zona?”
    Pinocchio ritratta: “Non lo so perché non ho seguito”. Ah, non ha seguito, esclamiamo io e Fioravanti all’unisono. E che gli dicevi ai turisti: attenti al lupo?
    Infatti Bevilacqua è costretto ad ammettere: “No, lo sapevo dei problemi perché c’era cartelli tutto lungo la strada che diceva zona del mostro e cose di quel genere, tanti cartelli”. Quindi mentre guida legge pure i cartelli e cose del genere. Ma quante cose fa mentre gira in auto?

    Dopo qualche minuto di discussione in cui non cava un ragno dal buco sulla visuale di Peppe e si ha l’impressione che il bikini l’abbia visto alla piazzola durante il secondo avvistamento, l’avvocato Fioravanti prova a fissare qualche punto e chiede: “Ecco, chi l’ha interrogata a lei?”
    “Non lo so neanche il nome, non ricordo. Uno di Firenze…”. La vaghezza delle risposte è impressionante, sembrano estratti dal manuale della perfetta spia. Come parlare lasciando intendere ma senza dir nulla di preciso e concreto.
    Fioravanti non si capacita: “La Polizia o i Carabinieri? Uno, due, dieci?”
    “Credo la Polizia”.
    A questo punto deve intervenire il Presidente della corte: “Avvocato, avvocato, non si agiti!”. Fioravà ti capisco, Peppe farebbe ammattire un santo.



    Altezza variabile

    Fioravanti si arrende. Sta per sedersi ma si rialza di scatto come se sulla sedia avesse trovato il dito di Pacciani. Vuole portare a casa una certezza quella sera.
    E visto che alla polizia ha detto che il naso con la fronte calva era alto più o meno come lui, gli chiede:
    “E lei quanto è alto?”
    “Forse sono un metro e ottantadue/ottantatre, non lo so”. Minchia, non sa nemmeno quanto è alto di preciso.
    Fioravanti chiede a questo punto se l’uomo visto nella stradina di via Faltignano fosse alto quanto lui.”
    Sì.
    Pacciani alto più di un metro e ottanta!



    Le recchie dei cani

    L’avvocato Bevacqua ha molti dubbi su questo ricanoscimento del Vampa. E spulciando gli atti trova una dichiarazione in cui Bevilacqua aveva detto di aver riconosciuto il naso di Pacciani su un giornale che un suo cognato gli aveva portato a Nettuno. Ben prima quindi di riconoscerlo tra le due-tre foto mostrategli dagli inquirenti.
    Peppe nega. Nessun giornale, anzi dice di essere stato lui a contattare i carabinieri subito dopo il massacro dei francesi. E come mai?
    “Sì, perché la sera che sono stati ammazzati i francesi - spiega Onlio- io ci ho due cani da guardia, io a quell’epoca abitavo più o meno fra i cento metri sotto il luogo dove sono stati ammazzati, i miei due cani, uno è campione di difesa d’Italia, volevano saltare la rete che è quasi due metri e mezzo d’altezza e non li lasciava andare, perché li cani con i recchi forse sentiva i francesi urlare e io osservava e metti i cani a catena perché teneva paura perché se attaccavano qualcuno (dentro un cimitero??). Dopo quando io ho sentito, la mattina, sulla radio in tutto della faccenda io volevo parlare con un poliziotto per spiegare che è possibile più o meno l’orario”.
    Ha dato due informazioni inedite: la prima è che sta a 100 metri dalla piazzola la sera del delitto quando le recchie dei suoi cani sentono qualcosa e abbaiano, tanto che lui la mattina dopo vuole andare alla Polizia. Pensate se tutti quelli che hanno un cane che abbaia di notte andassero dai carabinieri la mattina dopo. A dire che??

    “E c’è andato dai Carabinieri?” Chiede incredulo l’avvocato.
    “Sì”.
    Mah.

    La seconda cosa inedita è che la mattina dopo l’abbaiata sente la notizia dei francesi alla radio.



    L’amnesia di Peppe della Mirandola

    Bevacqua gli contesta il verbale in cui dice invece che un suo cognato gli ha portato La Nazione a Nettuno con articoli sull’omicidio dei francesi e la foto del Pacciani.

    Peppe conferma solo di avere un cognato, anzi 7-8. Neanche sul numero dei cognati è preciso. Roba da non credere.

    È il Pm Canessa stavolta a fare la domanda giusta:
    “I cani sentivano qualcosa. E lei ha detto: io poi andai dai Carabinieri l’indomani?
    “ Ho chiesto: quando veniva uno parlar con me?” svela.
    Ve lo immaginate: “Pronto carabinieri, ieri notte le recchie dei miei cani hanno sentito qualcosa. Puó venire qualcuno a parlare con me?”.
    Canessa chiede: “E sono venuti?”. Ma secondo te, Paolì? Si saranno fatti due risate su Onlio il matto.
    “No, andato io” dice infatti Peppe.
    E da quali carabinieri è andato? Lo chiede Canessa.
    “Io ho chiesto Carabinieri del Nettuno per chiamare Firenze e dire quello lì di Firenze“.

    Fermiamoci. Non ce la faccio più. Ma se stavi al cimitero dei Falciani, perché chiami Nettuno?

    Canessa non si pone la domanda (d’altronde uno ha fede nel Verbo di Katanga tante domande non se le fa) ma chiede quanti giorni dopo il fatto è successo, con chi ha parlato, quanti erano i carabinieri, i gradi che portavano, in che piano della caserma è stato sentito, se ha verbalizzato.
    Incredibilmente Peppe della Mirandola non ricorda nulla di preciso: giusto che è successo dopo l’omicidio, che erano di Borgo Ognissanto, erano due o tre, in borghese, non è sicuro di aver verbalizzato. Fosse passato in auto davanti alla caserma avrebbe memorizzato più dettagli....



    La Pole dopo la faccenda

    L’avvocato Bevacqua per fortuna ha seguito meglio di Canessa i brogliacci di questa testimonianza. E si chiede perché la mattina dopo che la recchie dei suoi cani hanno sentito qualcosa chiama i carabinieri di Nettuno visto che lui lavora ai Falciani. Sospetta che nella notte lui si sia trasferito da Firenze alla costa laziale.

    Bevacqua comincia così: “La sera che sente questi cani che abbaiano, lei era dentro o fuori il cimitero?”. Avvocà, t’è venuto il dubbio anche a te che era fuori dal cimitero, vero? Oltre la rete da cui sente i suoi cani abbaiare..
    “Dentro” assicura Pinocchio.
    “E la sera stessa se ne va a Nettuno lei?” Arriva al punto che gli interessa e Bevilacqua spiega che lui è andato via da Firenze nel 1989, a Nettuno appunto.
    “Ah quindi questa faccenda dei Carabinieri di Nettuno è dopo, nell’89?” Esclama l’avvocato.
    I carabinieri di Nettuno li chiama 4 anni dopo!
    Peppe conferma e dice di essersi rivolto subito ai carabinieri di San Casciano, 3-4 volte, ma senza risultato. La storia delle recchie dei suoi cani non interessava. Però c’è un passaggio interessante:
    “Quando ha parlato con i carabinieri?” chiede Bevacqua.
    “C’era Pole dopo la faccenda” risponde.
    Mi fermo perché questa è bella: sta dicendo, s’io ho le sue parole ben intese, che una di queste volte in cui parla con la Pole è sulla scena del delitto, durante i rilievi, “dopo la faccenda”. Tra poco, rispondendo alle domande finali, dirà infatti di essere passato da via Scopeti e di averla vista bloccata dalle forze dell’ordine che avevano scoperto l’orribile massacro dei francesi. Era sempre lì, su quella via diretto al bivio di Sant’Andrea. E, se è come sembra, si ferma a parlare con i carabinieri che stanno facendo i rilievi sulla piazzola e che non verbalizzano la storia delle recchie dei cani.



    TeleMike

    Bevacqua prova a tirare le fila della storia. Povero avvocato, non fa che tirare su nuovi nodi. Vuole sapere qualcosa di più preciso (illuso!) su questa testimonianza rilasciata ai Carabinieri di Nettuno: quando l’ha fatta e cosa ha detto.
    Sui dettagli Peppe conferma quelli riportati nei verbali letti dallo stesso Bevacqua oltre al dettaglio delle recchie dei cani.
    Sul riferimento temporale di questa testimonianza, di cui non esiste verbale nè alcuna prova, Bevacqua sa già che non avrà una data certa e fa come Mike Bongiorno:
    “‘90, ‘91 o ‘92”? La busta 1, la 2 o la 3?
    La risposta la usano come esempio da manuale al corso per direttore della CIA:
    “‘90-‘91 penso”.
    Cioè ha scelto la busta 1 e la 2 ma potrebbe anche essere la 3! Allegria!



    La mattina dopo

    Il Presidente della Corte invita a chiudere e anche io non ne posso più dello strazio.
    L’avvocato Fioravanti è uno paziente ma vuole un cazzo di riferimento temporale certo.
    Bevilacqua dice che la sera del delitto (che lui non dirà mai quale essere) ha sentito i cani abbaiare e la mattina dopo ha sentito la notizia alla radio, prima di riferire l’incredibile storia delle recchie ai Carabinieri di San Casciano. La cosa strana qual è? Che i corpi vengono scoperti da un fungaiolo alle 14 di lunedì 9 settembre, quindi Bevilacqua può aver sentito la notizia alla radio e aver chiamato i carabinieri solo la mattina di martedì per riferire che la sera prima (lunedì) i suoi cani avevano abbaiato proprio nell’angolo della rete a 100 metri dalla piazzola degli Scopeti. O non avevano abbaiato la notte del delitto o Peppe/Pinocchio mente sul resto. Spudoratamente. Scelgo la busta 2!

    Fioravanti ci prova a venire fuori da questa pazzesca incongruenza e arriva a dargli manforte anche l’avvocato Santoni di parte civile. Anche lui vuole provare a capire l’incomprensibile.

    Ma niente. Non se ne esce. Bevilacqua conferma la successione degli eventi: la sera i cani abbaiano dalle 23 alle 2 di mattina (3 ore!), la mattina si sveglia come sempre alle 6.30 per andare al lavoro (poi aggiunge “Poteva esse mattina, poteva esse un po’ più tardi perché non guarda orologio ogni volta”), accende la radio, sente la notizia, va al bar a prendere un caffè e vede via Scopeti chiusa (per via dell’omicidio scoperto). E, se vogliamo riprendere la ricostruzione fatta all’avvocato Bevacqua, si ferma con le forze dell’ordine per dire che i suoi cani hanno abbaiato. Se fosse vero, questo sarebbe potuto succedere solo dì martedì. Se.


    Il Mini-Me

    L’avvocato di parte civile Colao vuole fare una domanda sull’altezza. E io lo amerò sempre per questo. Non gli è sfuggito infatti che il testimone, alto un metro e 82-83 cm, dice che la casacca col naso e la fronte era alta quanto lui. Ma Pacciani non è mica alto così, sarà 1 metro e 70 al massimo.

    Il Presidente non ce la fa più di sentire la storia delle recchie dei cani e teme si torni a discutere del naso-con-la-fronte. Taglia la testa al toro e fa una cosa strepitosa: fa alzare Pacciani e Bevilacqua per un confronto. Ne succedono delle belle.

    Quando Pietro e Peppe sono davanti al giudice tutti restano a bocca aperta: sono identici. Apparte l’evidente differenza di altezza hanno la stessa corporatura, la stessa forma della testa, lo stesso naso, la stessa attaccatura dei capelli. È come se Pacciani fosse il Mini-Me di Bevilacqua, o Bevilacqua il sarcofago egizio di Pacciani, a sua immagine e somiglianza.
    “Si assomigliano pure, Presidente” nota subito l’avvocato Bevacqua.
    “Un po’ effettivamente” ammette il Presidente che già aveva notato nei due la stessa attaccatura dei capelli.
    “Molto Presidente!” insiste Bevacqua.

    Intanto i due cloni parlano tra loro. Si sente un Giuda di Pacciani e Bevilacqua che replica qualcosa di indistinto.

    Davanti a quella somiglianza strabiliante l’avvocato Bevacqua si lascia sfuggire una considerazione che sarebbe diventata leggenda se non fosse stata registrata dai microfoni in aula:
    “Fosse lui il mostro!”.

    Avvocà, non so che dire. Lo sai che anch’io sospetto che quel naso-coi-capelli Bevilacqua l’abbia visto allo specchio?

    Alfrè, forse il Ministero degli Esteri ha ragione: l’agente Joe può essere solo lui.

    Il quesito della Susy, il Mini me...mi hai fatto piegare in due dalle risate...
    Sembra quasi uno stile alla Benigni, nonostante la durezza degli argomenti, riesci a sottolineare gli aspetti più paradossali che diventano comici.

    Edited by JimMorrison84 - 19/4/2021, 13:19
  7. .
    Grazie Gio al tuo lavoro di riassunto che ha inquadrato quel punto che mi era sfuggito...avevo letto quegli atti, ma effettivamente non ci avevo riflettuto bene su questa circostanza.
  8. .
    O7r2hyO


    Da questa foto, che ho preso dall'archivio:

    https://asisp.intesasanpaolo.com/publifoto...ale-agricoltura

    Sembra esserci una sorta di "pozzetto" cerchiato in verde, ed un piccolo tubo nero cerchiato in rosso, che in effetti potrebbe sembrare un tubo in cui circola il fluido termovettore, e sembra posizionato al livello corretto.

    Ho seguito il consiglio di Giorgiorgiola, e su Raiplay (qui il link ) ho trovato un altra immagine che sembra confermare la circostanza, qui addirittura il tubo sporge al punto tale da proiettare chiaramente un ombra. E dalla posizione del pozzetto, si intuisce che questa seconda foto, è presa da un altra angolazione, per cui si può anche dedurre che quello è un secondo tubo, che effettivamente si trova sempre a livello, ed in una posizione avente la distanza corretta dalla precedente, con una logica che sembra quella a spirale ( o a chiocciola).
    Ci sta un altra osservazione da fare, doveva essere un impianto davvero avanzato per l'epoca e sicuramente aveva delle differenze con quelli moderni (che funzionano con pompe di calore ad alta efficienza che trasmettono un fluido vettore tra i 30° e 45° gradi centigradi), in quanto penso doveva operare con un impianto di riscaldamento di vecchia generazione che trasmetteva invece un fluido termovettore ad alta temperatura, ovvero tra i 45° e gli 80°, e probabilmente erano anche molto differenti le tubature usate per far circolare il fluido termovettore rispetto quelle moderne. Per cui a diretto contatto con l'involucro (la valigia chiusa) è assolutamente plausibile che dopo un certo lasso di tempo si siano alterate le condizioni al punto tale, da accelerare la detonazione dell'esplosivo. Effettivamente potrebbe aver detto la verità su questo.

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    Edited by JimMorrison84 - 16/4/2021, 15:30
  9. .
    CITAZIONE (Giorgiorgiola @ 12/4/2021, 01:09) 
    “Ipotetica scia di sangue” mi piace un sacco. Sembra di vedere una schiera di segugi che, tra ritagli di vecchi giornali, documenti e notizie pescate dalla rete nei modi più ingegnosi, segue un filo rosso in grado di collegare una serie di omicidi e nefandezze rimasti irrisolti. Si prendono in considerazione tempi, luoghi, modus operandi, vittimologia, armi. Si cercano collegamenti tra i casi sperando di arrivare a una sintesi finale, a una storia che possa essere raccontata dall’inizio alla fine. Impresa ardita, non c’è che dire. Intanto si procede a gruppi sparsi, qualcuno da solo, ognuno a caccia dei suoi mostri, ognuno coi suoi tarli. Anche io ho delle piste che preferisco seguire rispetto ad altre e ho dei tarli che mi scavano in testa. Uno di questi tarli è il collegamento tra il Mostro e Piazza Fontana che ho scoperto su questo forum grazie all’ottimo Dedobiker e che ha un nome e un cognome: Alfredo Virgillito.
    Alfredo Virgillito è una meteora che attraversa le indagini eterne sulla strage del 1969 eppure, per un attimo, illumina una scena che è impossibile dimenticare. La storia di Alfredo è contenuta in 16 pagine della richiesta di Archiviazione di un nuovo filone delle indagini su Piazza Fontana. Comincia nel 2010, quando in un romantico tramonto californiano riceve da un ambiguo personaggio, l’agente Joe, confidenze shoccanti su Piazza Fontana. Saranno la sua rovina.



    Il golden boy siculo milanese

    2010, maggio, San Francisco. Alfredo Virgillito, classe 1960, è convinto che tutti lo vogliano uccidere. Un segreto come quello che ha appena saputo se lo deve vendere bene, è la sua ultima possibilità.
    Una settimana dopo la rivelazione è già dal console italiano a San Francisco, Fabrizio Marcelli. Con pochi preamboli sgancia il missile terra-aria: ci sono Michelangelo Virgillito e la Cia dietro Piazza Fontana. Il console evidentemente è uno sgamato e gli chiede subito se la stessa pista vale anche per l’Italicus, Piazza della Loggia, Bologna. Alfredo non lo sa, non può saperlo. Sa solo quello che gli ha detto Joe mentre piangeva al tramonto. Probabilmente non capisce nemmeno la domanda, non sa che quella era la prima cosa da chiedere a Joe invece di passargli i fazzolettini.

    Ad agosto Virgillito chiede conferme al padre Carmelo, cugino di secondo grado di Michelangelo. E questo conferma: lo “zio” Michelangelo era una spia dell’Ovra, era coinvolto in piazza Fontana ma non si aspettava la strage.

    A settembre Alfredo è in Italia, cerca subito qualcuno a cui raccontare. Pensa di rivolgersi allo studio legale Pisapia, che conosce da tempo. Dice di voler parlare con un magistrato che si occupa di terrorismo. Sempre meglio che cercare sulle Pagine Gialle. Una donna (la centralinista, direi) gli dà il numero di Guido Salvini, magistrato in servizio al Tribunale di Milano. Virgillito lo chiama, si incontrano. “Ci sono i servizi americani dietro la strategia della tensione” gli svela in un sussurro Alfredo, immaginando che il magistrato caschi a terra svenuto. I sali non servono, Alfrè! Salvini lo sa già da anni. Nel 1988 ha avviato un’inchiesta sui gruppi dell’eversione nera e il loro ruolo nella strategia della tensione e, dopo dieci anni di indagini, ha svelato al mondo una cosa. Che Avanguardia nazionale, Ordine nuovo, La Fenice facevano parte di un’organizzazione più ampia, che si chiamava Gladio, vedeva coinvolti i servizi americani e, toh, era pure legale. E cosa era cambiato? Niente.

    Salvini non sottovaluta però Virgillito. Alfredo ha scoperto solo nel 2010 che dietro che la strategia della tensione ci sono gli Americani, magari prima pensava che erano stati gli anarchici, è uno che crede che la bomba a Bologna l’hanno messa due-tre ventenni e che dietro il Mostro di Firenze ci sono Vampa, Torsolo e Katanga. Alfredo è uno che se la pericolosa mafia del narcotraffico lo vuole ammazzare, frega tutti infilando una parrucca bionda e via, va sculettando al bar per incontrare Joe (ve lo ricordate?). Come può uno così inventare o anche solo lontanamente immaginare uno scenario come quello che svela su Piazza Fontana? Non capisce nemmeno la domanda del console di San Francisco sui collegamenti con le altre stragi. Sono l’ingenuità e l’ignoranza di Alfredo che, paradossalmente, lo rendono credibile.

    Il giudice Salvini non lo sottovaluta, infatti. Lui ormai si occupa di altro ma c’è un suo ex collaboratore dei tempi delle indagini sui Neri, uno che i Neri volevano ammazzare. Uno bravo. È il tenente colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo. Alfredo puó rivolgersi a lui.

    Virgillito chiama Giraudo il 22 dicembre 2010, si presenta, e gli dice che ha importanti rivelazioni da fare sul coinvolgimento degli americani nelle stragi fasciste. Ma bisogna stare attenti perché lo vogliono morto, a causa di un articolo uscito su Il Giornale nel 1994. Restano d’accordo di risentirsi il 30.

    Giraudo intanto fa la sua prima verifica. Trova questo articolo del 30 giugno 1994 dal titolo “Un golden boy siculo milanese” in cui si ricostruisce il brillante curriculum: nipote di Michelangelo Virgillito, finanziere catanese protagonista assoluto della scena milanese degli anni 50 e 60, il giovane Alfredo viene assoldato dalla mafia siciliana. Vuole fare carriera in Cosa Nostra e va negli USA per imparare l’inglese, dice lui. Qui però viene costretto dall’Fbi a collaborare a due operazioni antidroga, pena l’espulsione dal Paese. Lui, forse per non perdere i soldi del corso di inglese, accetta. A un certo punto però l’FBI lo scarica, o lui si tira indietro, non è chiaro. Fatto sta che viene fuori che ha giocato su due tavoli e ora gli danno la caccia sia l’FBI che Cosa Nostra. Un capolavoro, Alfrè.

    Il 30 si risente con Giraudo per fissare un incontro. Alfredo continua a sentirsi in pericolo, lo prega di non fare mai il suo nome al telefono, potrebbero intercettarlo. Giraudo gli sente fare il nome di Echelon e dire “gente cattiva quella”.

    Giraudo è una persona seria. Certo a sentire Echelon avrà alzato gli occhi al cielo, ma va avanti a verificare. E decide di avvertire la Procura di quanto vuole rivelare Virgillito. Ma non la Procura di Milano (come rileva stizzito nella relazione il pm milanese Spataro che poi liquiderà Alfredo come pazzo bugiardo e che smentirà di averlo conosciuto nel 1993), no, Giraudo si rivolge a quella di Brescia.

    Su mandato del pm bresciano Piantoni, Giraudo prende i pop corn e inizia la verbalizzazione.
    Alfredo è originario di Paternò (Ct) come lo zio Michelangelo (morto nel 1977), il lontano parente Nino La Russa (padre di Ignazio) e Salvatore Ligresti. Va a studiare a Milano, si mette a lavorare per la società Trident dove, forse grazie al cognome ancora prestigioso, entra in contatto con la malavita: il titolare Graziano Bianchi sarebbe uno che investe i proventi del narcotraffico negli USA. Alfredo va in America, dove inizia un doppio gioco, anzi triplo, con Dea, FBI e Cosa Nostra. Finisce male, lo scoprono tutti. Ora è in Italia ma vuole tornare negli Stati Uniti per cercarsi un lavoro onesto. C’è un problema però. Negli Stati Uniti ha falsificato un documento e se ritorna lo attendono cinque anni di carcere. Alfredo si rende conto del disastro che ha combinato ed è talmente onesto che fa mettere a verbale il suo epitaffio: “sono un porco, un maiale, un vero infame”.

    Alfredo vuole redimersi (o salvare il deretano), ed ecco che sgancia la bomba: so chi c’è dietro Piazza Fontana. Giraudo si mette comodo e apre le orecchie.


    L’agente Joe


    1988, dicembre, San Francisco. Virgillito sta collaborando con l’FBI all’operazione Iron Towers e fa il doppio gioco con Cosa Nostra. Un nipote di Lucky Luciano presenta a Virgillito un tale, Joe, invischiato nei traffici di Cosa Nostra. Joe dice di essere nato a Philadelphia da genitori pugliesi (di Candela) e di avere lavorato per la CIA di Helsinki dal novembre di quello stesso anno.
    Prima del 1992 Alfredo rivede Joe che dimostra poco meno di 60 anni. In questa occasione, o comunque sempre a ridosso del 1992, Joe gli chiede una “collaborazione” (quale? Boh) e gli fa vedere il tesserino della CIA con il nome Joseph, il cognome lo copre con un dito.
    Si rivedono nel 1995, al caffè Portofino di San Francisco dove Alfredo si presenta con parrucca, barba e baffi biondi perché la zona è per lui pericolosa. Joe è cambiato, beve, sniffa, gli dice di essere andato in pensione (dalla CIA?) ma di lavorare per conto suo nel traffico di armi e gli propone di partecipare a una serie di attività illegali che Virgillito rifiuta. A questo punto vorremo sapere quali. Ma vengono ritenute talmente inverosimili da non essere riportate del documento. Peccato.
    Nel 2001 si rivedono tra maggio e giugno. Alfredo cede e accetta di partecipare ad alcune attività illegali proposte da Joe. Anche in questo caso non ci viene detto quali, ma sappiamo che Virgillito riceve da Joe una pistola e un’arma micidiale, un’Mp7. Sì, ma per farci che? Mah.
    Nel 2006 si rivedono. Stavolta è Alfredo che chiede aiuto a Joe, rischia di essere espulso dagli USA e se mette piede in Italia lo fanno secco. Se Joe lo aiuta o meno non è dato saperlo.
    Arriviamo al maggio 2010, al romantico tramonto sul Golden Gate. Joe é cambiato, si vede che non sta bene, ha perso i capelli e di punto in bianco scoppia in lacrime. Io ho pensato subito a uno che sta curando il cancro con la chemioterapia, ma Alfredo no. Lui pensa solo a come ottimizzare le informazioni che gli vengono rivelate tra un singhiozzo e l’altro.



    Piazza Fontana

    Il racconto-confessione di Joe comincia nel 1967. Lui, che già lavora per la CIA, è in servizio presso l’ambasciata americana quando conosce Michelangelo Virgillito, ex spia dell’Ovra, poi dell’Oss, ora della CIA. Sono colleghi. La Cia, racconta Joe ad Alfredo, in quel periodo è preoccupata per le manifestazioni studentesche e teme che i Comunisti possano prendere il potere in Italia. (Cosa verissima, tra l’altro, perché effettivamente gli americani temevano una convergenza delle proteste operaie e di quelle studentesche a Milano). Ecco perché la CIA passa al contrattacco e organizza l’operation Vinci ( dal nome del genio che ha dipinto il cenacolo conservato a Milano). In cosa consiste? Nel far scoppiare ordigni di notte in alcune banche di Milano e Roma (non scelte a caso) per far ricadere la colpa sugli anarchici e i movimenti studenteschi, giustificare uno stato d’emergenza e l’adozione di misure autoritarie di destra in grado di sbarrare la strada ai maledetti Comunisti. Michelangelo Virgillito che c’entra? Lui deve finanziare tutta l’operazione e fornire appoggio logistico, in cambio potrà fare speculazioni in Borsa per rientrare dell’investimento. Michelangelo accetta perché sono anni che ha contro la finanza laica di Milano, la sua stella, così fulgida negli anni 40, sta tramontando, e anche i politici democristiani gli stanno voltando le spalle. Ecco una buona occasione per rifarsi. Ok, ci sto, dice a Joe, ma ho tre amici da tirare dentro. Joe vuole i nomi: sono La Russa, Ligresti e Sindona. Anche Virgillito vuole sapere chi sarà coinvolto e riceve dall’agente americano un foglietto con cinque nomi.

    1969, 12 dicembre. Dall’hotel Ambasciatori di Michelangelo Virgillito, dove c’è Joe che coordina le operazioni, parte la valigetta con l’ordigno che viene lasciata nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura. Deve esplodere in serata, quando la banca è chiusa, proprio come succede in altre banche tra Milano e Roma. Qualcosa però va storto e la bomba esplode quando la banca è aperta. Una strage. La madre di tutte le stragi. Merda.
    Joe spiega ad Alfredo che è stata tutta colpa del riscaldamento del pavimento, ecco perché la dannata bomba è esplosa prima. E poteva andare peggio perché c’era un’altra bomba ma non è esplosa e sono riusciti a farla sparire prima che la trovassero. Questo è quello che racconta anche a Michelangelo Virgillito che è fuori di sè per l’accaduto, ha paura. Basta, non vuole più proseguire con questa operazione.


    La fondazione Virgillito

    A preoccupare Alfredo non c’è solo la mafia, l’FBI e la CIA. Teme anche ripercussioni dall’alto. Molto dall’alto. Michelangelo non ha figli e lascia tutto il suo patrimonio alla Chiesa o, meglio, alla Fondazione Virgillito gestita da alti prelati e qualche parente. Alfredo insinua che la fondazione, che gestisce un immenso patrimonio, sia coinvolta in operazioni illecite. E qui mi fermo, ma solo per esigenze di spazio e di tempo: la Fondazione Virgillito è un terreno quasi vergine, che andrebbe esplorato. Ma non qui, non ora.


    Gli accertamenti di Giraudo

    Purtroppo non abbiamo accesso diretto agli accertamenti compiuti da Giraudo sulle dichiarazioni di Virgillito. Ne possiamo leggere la sintesi fatta dal Pm Spataro nella richiesta di archiviazione che ci ha svelato l’esistenza di Alfredo Virgillito.
    Bisogna dirlo, Spataro non è per niente tenero con Giraudo. Forse per via di quelle informative girate alla procura di Brescia anziché a quella di Milano. Una mancanza di fiducia molto chiara. Fatto sta che dopo aver omesso una serie di circostanze fornite da Giraudo in quanto ritenute “insignificanti”, Spataro riassume in pochi punti le scoperte del colonnello.
    Si è accertato che solo un Carmelo Virgillito, classe 1897, ha fatto parte dell’Ovra fino al 1939, quando è ritornato a Paternò. Non è però il padre di Alfredo, che è del 1927.
    I due bar in cui Alfredo dice di aver incontrato Joe esistono. Bene. È qualcosa. Ma quando un agente chiede, “con tecnica singolare” (e qui immagino che parli col naso tappato...), di parlare con Joe, non ci riesce. Ma che accertamento è? Sinceramente non mi basta.
    Sul coinvolgimento di Michelangelo Virgillito in piazza Fontana, che è poi il punto centrale, ci sono delle considerazioni di Giraudo stesso sui vantaggi finanziari e politici che gliene sarebbero potuti derivare. Ma sono considerazioni di Giraudo, appunto, non di Alfredo (che non ci capisce una cippa di queste cose), e Spataro le cestina perché non hanno valore probatorio. La faccenda Virgillito/PiazzaFontana si chiude così, con una semplice resa davanti all’impossibilità di ricostruire i movimenti bancari di quegli anni.
    E l’agente Joe? Giraudo ha smosso tutti suoi contatti, fino a Helsinki, per capire chi fosse, ma niente, resta senza identità. Per ora.
    L’informativa di Giraudo si chiude con una lista di accertamenti con cui proseguire le indagini su Virgillito.

    A questo punto nel documento della Procura si dà spazio al gossip. Spataro inizia a riportare le manie di persecuzione di Alfredo che si sente in pericolo per il tradimento di Cosa Nostra del 1988 (come se le condanne a morte della mafia cadessero in prescrizione...), e il fatto che prenda due cortisonici a distanza di 8 ore! Un cortisonico ogni 8 ore? Ma è di una gravità inaudita!
    Spataro ce l’ha anche con i suoi nickname. Mette nero su bianco che nel corso di una chiamata Skype con Giraudo si presenta col nome “Mandrillito”! Povero Alfredo. Spataro non sa che c’è Echelon che lo spia, con che nome si deve presentare? Giuda? Gola profonda?

    Alfredo si sente alle strette e tra gennaio e febbraio 2011 tira in ballo altri dettagli su Joe (tifoso dei 49er, era il contatto con il narcotrafficante Vito Bianco). Crede fermamente che un agente della Cia racconti dettagli personali veri a un codardo doppiogiochista. A Giraudo però non basta. Allora Mandrillito chiama in ballo il padre. Dice che lui può confermare tutto. Alfredo proprio da lui ha saputo che all’epoca di Piazza Fontana Michelangelo Virgillito era in contrasto con Giulio Andreotti e che sperava, con l’operation Vinci, di rifarsi sul rivale. “Quel figlio di puttana di Andreotti questa volta me la paga. Metto a ferro e fuoco l’Italia intera questa volta” avrebbe detto Michelangelo al cugino Carmelo poco tempo prima di Piazza Fontana.

    È a questo punto, quando Giraudo sta organizzando un incontro con Carmelo Virgillito, che le indagini passano dalla Procura di Brescia a quella di Milano.



    L’esame di Mandrillito

    Il 16 febbraio 2011 le indagini approdano alla Procura di Milano che esprime una serie di riserve sulle scelte investigative di Giraudo, a cominciare dalla sua decisione di inviare le informative a Brescia.

    A marzo Alfredo è ancora in contatto con Giraudo ma scalpita, vuole tornare in America. Il colonnello lo placa, gli dice che il Pm di Milano presto lo sentirà. Il 9 marzo il pm, Armando Spataro, insieme al pm di Brescia, convocano Virgillito.

    Alfredo ricorda a Spataro che già si conoscono: Si sono incontrati due volte tra il 1992 e il 1993 nella caserma milanese di via Moskova, dove Alfredo aveva rivelato un traffico di stupefacenti tra Ventimiglia e Los Angeles ad opera della famiglia calabrese dei Palamara. Il magistrato però non se lo ricorda e negli atti dei Carabinieri non c’è traccia. Per la verità salta fuori un verbale del capitano Campaner che riporta dichiarazioni di Virgillito, e risale al 1 dicembre 1992. Ok, quindi Alfredo in quella caserma c’è stato e proprio a cavallo trail 92 e il 93. Sì, ma nel verbale non si parla di traffici calabresi, quindi non vale. Povero Alfredo, fanno tutti finta di non conoscerlo. E poi il 1992 non era l’anno in cui Joe gli aveva chiesto collaborazione? C’entra qualcosa con questo traffico mai verbalizzato? Ah, saperlo!

    Virgillito ripete al pm di Milano la storia raccontata a Giraudo, anche se il servizio all’ambasciata di Joe passa dal 1967 al 1969.
    Se col pm di Milano iniziamo male, finiamo peggio perché l’ultima domanda è sullo stato di salute mentale di Alfredo. È depresso, ammette, ed è in cura in centro milanese. Un cortisone ogni 8 ore, il nickname Mandrillito, ora la depressione. Povero Alfredo. O forse la domanda del pm è tendenziosa, in realtà gli sta prospettando già la soluzione: Alfrè, guarda che polverone vuoi alzare, non è meglio che fai il pazzo e la chiudiamo qui?

    Il 22 marzo Alfredo scopre con orrore che sta per uscire dal carcere Graziano Bianchi, quello che nel 1994 aveva scoperto dal Giornale di essere stato venduto all’Fbi. È una specie di anello di congiunzione tra il terrorismo di sinistra e Cosa Nostra. Bianchi abita vicino casa sua, Alfredo ha paura. In preda ad un attacco di panico chiama Giraudo che gli consiglia di dirlo alla Procura. Virgillito lo fa e viene preso per pazzo. Si preoccupa per un fatto accaduto “quasi 17 anni prima!” è l’esclamazione contenuta nella richiesta di archiviazione. Forse nella Procura di Milano sanno quando scadono le condanne a morte dei mafiosi.


    Carmelo Manzoni

    Il 30 marzo il padre Carmelo Virgillito viene sentito dai pm di Milano e bolla come romanzesca la storia del figlio. E chi è, Alessandro Manzoni, per concepire dal nulla una trama del genere? Forse sì, perché la dote del romanziere Alfredo l’ha presa dal padre. Sentite Carmelo come giustifica la famosa frase del cugino: “Quel figlio di puttana di Andreotti questa volta me la paga! Metto a ferro e fuoco l’Italia intera questa volta”.

    Ma quale Piazza Fontana! Sbotta Carmelo Virgillito, quella frase Michelangelo l’ha detta per un altro motivo. A quei tempi era proprietario di diversi cinema in tutta Milano (e anche della Galleria del Corso, della Sede del Banco Ambrosiano e dell’hotel Ambasciatori) e tutti i parenti di Paternò potevano entrare gratis. Sennonché una maledetta sera Carmelo viene cacciato dal direttore di un cinema, che sostiene di aver ricevuto direttamente dal capo l’ordine di non farlo entrare. Sorpreso e contrariato, Carmelo si reca dal cugino per chiedere spiegazioni. Michelangelo va su tutte le furie, lui non ha mai dato quell’ordine. “Non c’è più rispetto nei miei confronti - si arrabbia - ora metto a ferro e fuoco l’Italia intera”. E infatti cade la prima testa: il direttore del cinema viene licenziato. C’è anche un colpo di scena: si scopre chi ha dato l’ordine al direttore. Giulio Andreotti? No, era stata l’amante di Michelangelo, una certa Monaca di Monza pare. Ma cosa le aveva fatto Carmelo per meritare la radiazione dai cinema? Il pm non lo chiede. Gli chiede invece come mai aveva parlato di questo l’agosto precedente col figlio Alfredo. “Ero appena arrivato a San Francisco e mi avevano sottoposto ai controlli antiterrorismo e ho commentato: se funzionassero così in Italia non avremmo avuto tanti misteri come quello di piazza Fontana”. Applausi.
    Carmelo, si sbilancia anche in una fine interpretazione sulla madre di tutte le stragi: “Non credo fosse un’operazione terroristica (no Carmè, che scherzi?), penso più a un regolamento di conti in ambito finanziario. L’Ovra? Tutto inventato. L’Oss? Mai sentita. La CIA? Ma se Michelangelo non parlava inglese”. Non fa una piega.
    Per i pm di Milano questa storia è più credibile di quella di Alfredo.
    Quindi imboccano la pista che Giraudo, e questo glielo rimproverano nero su bianco, aveva trascurato: la salute mentale di Alfredo.


    Il complesso di Edipo

    La cartella clinica di Alfredo acquisita dalla Procura è una discesa nell’abisso dell’uomo medio. Prozac e birra (ok, anche un po’ di coca) per affrontare il divorzio con la moglie, una crisi di panico dieci giorni prima l’uscita del Giornale con l’articolo che lo sputtana e lo condanna a morte (qualcuno lo aveva avvertito). E poi ancora ubriachezza, manie di persecuzione (fondatissime a mio avviso, la mafia non perdona i traditori checchè ne dica la Procura di Milano), sentimento di colpa e svalutazione di sè. Alzi la mano chi non si è sentito così nella vita, almeno una volta. La pietra tombale la mette la relazione di una psicologa del Sert: complesso edipico irrisolto! Alfrè, mo’ so cazzi! Se lo scopre tuo padre...
    Paranoia, diffidenza e una tendenza al suicidio completano il quadro che si traduce in una diagnosi spietata: disturbo schizotipico dì personalità. Alfrè, mannaggia.
    Non solo, alla fine degli anni 90, Mandrillito manifesta razzismo contro gli extracomunitari, in particolare gli albanesi protettori di prostitute.
    Nel 2010 per Alfredo è finita: depressione. Addio.


    Questione di ortografia

    Siamo alla fine di aprile del 2011 e la vicenda si avvia verso un triste finale. Alfredo non si fida più della Procura di Milano, persino i dipendenti lo trattano male. “Questo non è un bar, non rompere i coglioni” si sente rispondere. Vuole parlare solo con Giraudo che continua a mandare le informative a Brescia.
    Alfredo gioca le sue ultime carte. Torna a dire che il padre può confermare la sua versione ma solo a Giraudo, e che conosce i dettagli di un attentato contro il magistrato Barbara Silano che indagava sulla mafia in Nevada e California. Non solo, nel confessare peccati di gioventù tira in ballo l’onorevole Ignazio La Russa, figlio di quel Nino che sarebbe stato coinvolto da Michelangelo Virgillito in Piazza Fontana. Alla fine degli anni 70 il giovane Ignazio avrebbe avuto in mano il controllo del giro di eroina a Milano. Ma questo Alfredo a Spataro non lo vuole dire. E ti capisco Alfrè! Nemmeno io glielo vorrei dire!

    Sul presunto attentato al magistrato indagano quelli della Direzione Nazionale Antimafia che intanto fanno sapere che Alfredo aveva provato a svelare il suoi segreti anche a loro. E poi di questo attentato aveva saputo nel 1994, gli era stato confermato 14 anni dopo (nel documento Spataro mette l’indicazione temporale in grassetto per evidenziarla, si vede che è fissato con le scadenze) ma il fatto saliente è il seguente: il magistrato si chiama Solano e non Silano! Eh, Alfrè, l’ortografia è importante!
    Per Spataro non ci sono dubbi: ancora una volta Virgillito non è credibile.
    Giraudo trova invece qualche riscontro su Ignazio La Russa: nella trasmissione L’Infedele e in un articolo dell’Espresso ci sono riferimenti a Michelangelo Virgillito e alcune conferme alla versione di Alfredo. Non ne sono sicura, ma credo che l’abbiano invitato a guardare meno tv.


    Who is Joe?

    Ormai la Procura di Milano sta per chiudere le indagini. Il fatto che il Console di San Francisco e l’FBI confermino le dichiarazioni di Virgillito (e sono anche gli unici che ammettono di conoscerlo), a Spataro non basta. L’FBI non si capisce bene che risposta ha dato e poi c’è questo fatto logico inoppugnabile: se Alfredo ha così tanta paura della CIA, perché preme per tornare in America?! Ma Spataro le ha scritte davvero queste cose? Ebbene sì, sotto c’è il link al documento, per i più scettici.

    L’accertamento dell’identità dell’agente Joe a questo punto è un proforma. Lo si fa tanto per fare, Spataro pensa che non esista, che sia l’ennesimo parto di una mente malata. Comunque chiedono al Ministro degli Esteri.

    Il 22 luglio 2011 arriva la risposta del Cerimoniale diplomatico della Repubblica - Ufficio II - Ministero degli Esteri. Minchia, sembra Harry Potter. Prendo i pop corn.
    Dalle ricerche effettuate solo una persona corrisponde, per nome ed età, al profilo fornito da Alfredo Virgillito: si tratta di Joseph Bevilacqua, nato a Totowabora (NJ) il 20/12/1935.

    Minchia, è lui! Colui-che-non-deve-essere-nominato! Ma non è nato a Paterson? Lo scrive lui stesso in una piccola presentazione riservata ai veterani. Chi mente? Eh, lo so, è una bella lotta.

    Andiamo avanti. La Farnesina fa sapere che Bevilacqua ha lavorato per l’ambasciata americana (evvai Alfrè) ma dal 1974 al 1989 presso il Consolato di Firenze, dal 1989 al 2010 al Consolato di Roma. Mannaggia Alfrè, di poco.

    Poche righe, è vero, ma intense, da brivido. Per noi, per i motivi che sappiamo oggi grazie all’inchiesta giornalistica di Francesco Amicone, ma anche per Spataro dieci anni fa.
    Alfredo ha mentito anche su questo, conclude il Pm.

    Nel 1969 Bevilacqua non era in servizio all’ambasciata americana, rileva il magistrato. A parte che Alfredo aveva detto nel 1967, l’anno in cui Joe avrebbe conosciuto Michelangelo. E poi questa semmai è la prova che ha mentito Bevilacqua, non Alfredo. Non ho la logica ferrea del dottor Spataro, ma una spia non dice quasi mai la verità, soprattutto su se stessa. Non sarebbe una brava spia altrimenti. E il nostro Joe lo è, eccome se lo è.

    Alla Procura di Milano non sfugge che Bevilacqua era in Italia dal 1988 al 1992, quindi non poteva essere in Finlandia. Ma questi Pm mangiano pane e logica? Certo che non poteva, ma quando mai Alfredo ha detto che Joe è stato in Finlandia quattro anni? No, guarda, vado a rileggere le dichiarazioni e trovo: dal 1988 ha lavorato per la stazione CIA di Helsinki. “Lavorato per” non vuol dire “vivere a”. E poi sto 1992 da dove salta fuori? Alfredo ha solo detto che dopo l’88 rivede Joe nel 1992. Ora sono diventati quattro anni in Finlandia. Senza dimenticare che anche su questo dettaglio potrebbe aver mentito. Ma che, quelli della CIA vanno a spiattellare al primo venuto dove e per chi lavorano? Ma dai. O è una spia e allora mente per lavoro, o non è una spia e quindi mente comunque. Non ci piove: Joe è un bugiardo.

    Il terzo e ultimo punto: il Pm constata che fino al 31 luglio 2010 Bevilacqua era regolarmente in servizio in Italia e quindi non poteva essere andato in pensione nel 1992 nè trafficare armi, essere dedito all’alcol e alla cocaina nel 1995. Ok per questa storia del pensionamento (colpa di Alfredo che si beve tutto e non fa mai le domande giuste), ma, chiedo per un amico, uno che è in servizio non può bere o farsi una striscia ogni tanto? E magari partecipare a un traffico d’armi? No? Devi metterti in ferie o licenziarti? Io non lo so, comincio a sospettare che la Procura di Milano viva in qualche mondo parallelo.

    La conclusione del Pm è una lapide: il fantomatico Joe o Joseph di cui parla Virgillito non è Joseph Bevilacqua e, se esistente, resta persona ignota. Spataro, te lo dico serena, non mi hai convinto neanche un po’.

    Mi dispiace, Alfrè, è andata così. Non ti hanno nemmeno fatto vedere la foto di Bevilacqua, giusto così, per curiosità, è lui o non è lui. E invece, niente, restiamo col dubbio. Ormai sei pazzo e anche mostrati la foto non servirebbe a niente. Volevo solo dirti grazie per aver provato a darci un po’ di verità. Lo so che lo hai fatto solo per salvarti, per avere una vita tranquilla senza dover stare a guardarti sempre le spalle. Mi va bene lo stesso. Grazie Alfrè!

    https://stragedistato.files.wordpress.com/...ito-p-67-82.pdf

    L'intervento di Giorgiorgiola merita di essere incorniciato anche qui, sono davvero felice di vedere ottenere questi risultati.
    Ed ho riflettuto su un altro aspetto, che effettivamente mi era sfuggito, ed è di un importanza cruciale...


    "1969, 12 dicembre. Dall’hotel Ambasciatori di Michelangelo Virgillito, dove c’è Joe che coordina le operazioni, parte la valigetta con l’ordigno che viene lasciata nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura. Deve esplodere in serata, quando la banca è chiusa, proprio come succede in altre banche tra Milano e Roma. Qualcosa però va storto e la bomba esplode quando la banca è aperta. Una strage. La madre di tutte le stragi. Merda.
    Joe spiega ad Alfredo che è stata tutta colpa del riscaldamento del pavimento, ecco perché la dannata bomba è esplosa prima. E poteva andare peggio perché c’era un’altra bomba ma non è esplosa e sono riusciti a farla sparire prima che la trovassero. Questo è quello che racconta anche a Michelangelo Virgillito che è fuori di sè per l’accaduto, ha paura. Basta, non vuole più proseguire con questa operazione
    .

    Da essere pensante guidato da una logica razionale, avrei invitato il Pm competente (o un eventuale Commissione Parlamentare incaricata a far luce su questo evento) per accertare la credibilità della testimonianza , a svolgere opportune verifiche su questo aspetto del riscaldamento del pavimento che avrebbe accelerato la detonazione dell'ordigno.
    Per due motivazioni, la prima è che trovo interessante, che la testimonianza di Virgillito riporti un informazione tecnica a mio parere plausibile, che sembra essere abbastanza al di fuori del "pacchetto di competenze" padroneggiate dal soggetto, per cui questo tende a farmi pensare che sia un informazione che realmente possa aver acquisito "de relatio" dalla confessione di qualcuno che sapeva realmente come sono andate le cose.
    La seconda motivazione, è che quel tipo di sistema di diffusione del calore, ovvero il riscaldamento a pavimento (sistema ottimo e ad altissima efficienza) è tuttora relativamente poco diffuso, figuriamoci negli anni in questione, per cui una delle prime verifiche era questa, appurare che nell'edificio della Banca Nazionale dell'Agricoltura il 12 dicembre 1969 era attivo ed in funzione, un sistema di riscaldamento radiante a pavimento.
    Questo doveva (ed è) il primo punto che andrebbe accertato.
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    L'analisi pubblicata da Dedo del Prof. Bernini mi ha acceso una lampadina, specialmente sull'aspetto del discorso del significato del nome delle vittime (fa l'esempio di Gentilcore), tenendo presente, quanto JB sembra aver dimostrato circa l'interesse alla logica del nomen-omen.
    Mettendo tutto insieme, ci sono elementi che ricorrono.
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    sul fatto che era un super soldato-agente segreto, che ha ricevuto un addestramento a mio parere unico ( 2 lauree, prima marine, poi esercito, addestramento paracadutisti, studi in chimica, tecniche di investigazione della polizia criminale, intelligence, psy-op) e che si è distinto con azioni uniche sul campo di battaglia, venendo premiato con la Silver Star, per me non ci sono dubbi di alcuni tipo. Sapeva fare praticamente tutto.
    Sul discorso delle ispirazioni artistiche se hai qualche suggerimento sono tutt'orecchi figurati...
    Sul discorso della crittoanalisi, ovviamente come detto dal curriculum di prima, risulta chiaro che aveva anche quella competenza, e francamente, dopo che utilizzando parti di cifrari celebri di Zodiac ( Harden, nuovo 340, parti del mio 340, e Monte Diablo e My name is di Panino), ne ho ottenuto uno con un metodo inverso, che da una perfetta soluzione che ho qui pubblicato, non so che altro fare, attendo che il mondo si svegli (se si vuole svegliare).
    Oppure attendo un qualsiasi esperto di matematica specializzato in crittoanalisi, che mi muova una qualche critica razionale accettabile, ma non credo che esista.
    Ho la certezza che su quella soluzione ho un record mondiale da incassare, ma faccio finta di nulla, anche perchè come accennavo prima, non sono ancora del tutto sicuro che la verità ottenuta, sia qualcosa che il mondo vuole (almeno i vertici).
    Mi viene da ridere, è una situazione paradossale ehehehehehe
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    Mi unisco pure io ad i complimenti! Davvero un ottimo lavoro Giorgiorgiola, hai sviluppato una ricerca fissando vari punti importanti, e trovato le notizie di cronaca collegate, ed hai unito il tutto con un ottimo stile narrativo. Nuovamente benvenuta tra noi.
    E vi ringrazio di cuore, quello che mi dite ripaga ampiamente ogni sforzo ed energia devoluti qui...
    A prescindere dalla "quintessenza" del nostro lavoro e dal valore che può avere, a prescindere se questa è una causa persa, una "battaglia contro i mulini a vento", io sono davvero fiero di tutti voi, per come la state conducendo.
    Come dissi tempo fa, questo è un luogo importante. Perchè è un punto di incontro di menti particolari, e molte menti particolari, che entrano in risonanza, possono fare cose incredibili, "possono creare universi".
    Per cui forse è questa crescita attraverso lo studio e l'esperienza, con i necessari tentativi, ed errori, il più grande valore intrinseco, e di cui sono davvero felice.




    Post scriptum:

    Stiamo cercando di creare macchine simili a noi, ma siamo ancora lontano da questo, e la nostra esperienza storica ci sta insegnando, che la prima cosa che prova a fare un entità vivente e cosciente è comprendere se stessa e provare a ricrearsi allo stesso livello, solo da lì, poi puoi pensare di provare a creare qualcosa di migliore.
    Io ritengo, che il più potente computer al momento esistente, che è quello quantistico, in possesso del governo americano in comproprietà con Google, è un rozza copia della nostra mente.
    Sembra che ultimamente a volte divago, ma in realtà io ritengo questa ricerca su questa persona "al di fuori dell'ordinario" e tutte le sue mirabolanti vicissitudini, molto attinente con molti punti oscuri, su cui faccio ricerche ed indago da anni.

    Post post scriptum:

    Io spero sempre che il Nostro protagonista, magari possa prima o poi comparire, prima di passare ad altra esistenza, ed in virtù del fatto di premiare le buone intuizioni, che qualcuno di noi potrebbe aver avuto, in maniera leale, come le sfide da Lui tanto amate, potrebbe dirci qualcosa...

    Per Antonio:

    Circa gli spostamenti Toscana-Germania, si è basata su i dati del ruolino pubblicati nelle varie inchieste di Panino, e tradotti in tutte le sigle.
    Aggiungo, che i collegamenti che ha fatto, sono confermati dagli articoli, dall'ultimo in particolare, esce il collegamento prima con il nipote, per poi arrivare a parlare dello zio, e di alcuni aneddoti che ha citato.

    Edited by JimMorrison84 - 7/4/2021, 14:40
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    Sono d'accordo con Doc, a questi livelli, uno scivolone anche piccolo, può essere fatale per la propria credibilità, e fossi nell'autore farei tesoro di questi consigli...
    Fossi in lui, avrei anche meglio sottolineato, che nel caso del mostro di Anzio, anche abbiamo un ritrovamento nelle immediate vicinanze del cimitero, come a Scopeti.
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    Benvenuto/a Giorgiorgiola, e grazie per questo intervento interessante sul tema Falange Armata.

    Riprendo il discorso che avevo lasciato in sospeso, sia per la difficoltà del tema, che per mancanza tempo, oggi mi propongo di concluderlo.
    Eravamo rimasti alla necessità di definire il ruolo del CPC e dell'ACC, in relazione all'operazione "Stay Behind", e dello scambio di comunicazioni tra il PM competente di quel procedimento ed il Presidente del Consiglio, il Divo Giulio.
    E per chiarire questi punti, che non è cosa facile, utilizzerò il lavoro di un altra commissione parlamentare (non so ormai di quante ho riportato il link):

    www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/909953.pdf


    Consiglio di leggere dall'inizio, io inizio a riportarvi le pagine più importanti, che iniziano a narrare dal '50 in poi:

    "Tale intesa venne perfezionata nel giugno 1951. Gli ulteriori tentativi americani di estendere per quantità e qualità le concessioni italiane si scontrarono con dinieghi fermi anche se mai aperti e fu solo, come confermato dai documenti americani, il personale interessamento del nuovo ministro della difesa Taviani a rendere possibile la stesura dell'accordo finale (ottobre 1954). Nella sua audizione davanti alla Commissione il senatore Taviani ha confermato la parte avuta nel raggiungere l'accordo sulle basi. La presenza militare americana in Italia era stata rafforzata dopo la firma del Trattato di pace austriaco, che portò al ritiro delle truppe di occupazione dal paese e quindi anche del contingente americano. I suoi cinquemila uomini vennero trasferiti a Vicenza e, dotati di missili tattici nucleari a breve raggio «Honest John», vennero a formare la Southern Europe Task Force. I contatti per l'aumento delle basi erano rimasti bloccati dopo che, all'inizio del 1953, si era giunti alla stesura di una ipotesi di accordo che prevedeva la cessione di una serie di installazioni militari (aeroporti, aree di rifornimento, di comunicazione e porti) e allo stazionamento in tempo di pace di personale militare per un totale di 17.000 uomini. Tali contatti non avevano riguardato solo il Ministero della difesa e il gruppo misto che lavorava al suo interno per definire i termini tecnici dell'accordo, ma si erano sviluppati nel corso di vari incontri a livello politico, comprendenti, da parte italiana, i più alti funzionari dei Ministeri della difesa e degli esteri nonché i Presidenti del Consiglio che si erano succeduti al governo dopo le elezioni del 1953. Si arrivò così alla firma di un gruppo di intese italo-americane, apposta nell'ottobre 1954, poco dopo la redazione del memorandum di intesa sulla questione di Trieste. Gli estremi degli accordi sono coperti dal segreto militare; non è difficile tuttavia, avvalendosi della documentazione preparatoria americana, chiarirne i termini generali. Si trattava di documenti di carattere preminentemente tecnicogiuridico in cui era fatto riferimento primario a temi quali la divisione dei costi, la proprietà degli edifici, la giurisdizione entro l'area della base e, in subordine, la competenza giuridica a stipulare contratti con le ditte costruttrici. Vi erano fissate, inoltre , le località e il tipo di installazione richieste dagli americani. La questione dell'uso delle basi da parte delle forze armate americane in caso di guerra era, nella bozza di accordo preliminare presentata dagli italiani, trattata assai sommariamente, prevedendo che ciò potesse avvenire «solo per adempiere a responsabilità emergenti dalla NATO e seguendo disposizioni NATO o in accordo con il Governo italiano». Non risulta che fosse contenuta nel testo la formula che, a suo tempo, la Gran Bretagna aveva richiesto per il proprio, relativa alla libertà da parte del Governo di decidere in merito alla rescissione dell'accordo qualora questioni di opportunità politica l'avessero consigliato. Gli italiani avevano insistito con esito negativo per limitare la durata dell'accordo da cinque a dieci anni. II complesso documento era composto da un accordo generale che regolava le questioni tecnico-giuridiche cui si è fatto riferimento più sopra; da una serie di annessi il primo dei quali rivelava il luogo e il tipo di basi o facilities richieste; da una serie di interpretazioni congiunte (agreed interpretations) su dogane e tasse, moneta, status del personale NATO di servizio in paesi diversi da quello d'origine sul quale era stata firmata nel giugno 1951 la convenzione di Londra, non ancora ratificata dal Governo italiano. L'accordo generale prevedeva che l'Italia dovesse concedere gratuitamente i siti e le relative servitù d'uso, mentre gli Stati Uniti si sarebbero accollati l'onere per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture necessarie ad ospitare il proprio personale, a meno che queste non ricadessero nel programma comune della NATO. Qualora la base fosse stata cogestita, anche i costi sarebbero stati divisi. In attesa dell'attuazione dello statuto relativo allo status delle forze della NATO, lo Stato italiano avrebbe esercitato funzioni di polizia, mentre a quello americano sarebbe stato delegato il potere di mantenere «sicurezza e ordine«. La parte più controversa dell'accordo riguardava il potere a stipulare contratti con ditte locali per la costruzione degli impianti. La parte riguardante l'ubicazione e la tipologia delle facilities richieste ricalcava quella approvata nel 1951 dall'EMMO, estendendo le richieste che rimanevano qualitativamente simili a quelle approvate dalla NATO. Era prevista solo una base con presenza di caccia bombardieri americani, la cui costruzione era già stata finanziata tramite i fondi NATO per il programma delle infrastrutture. Si trattava, negli altri casi, di ospitare aerei da combattimento (Aviano), servire da base di supporto (revisione, rifornimento, trasferimento) (Amendola), e, per la maggior parte, ospitare depositi di rifornimenti vari, civili e militari («Pol»: petroleum oil lubrificant, munizioni e altro), centri di comunicazione e assistenza per l'Aeronautica e per la Marina americana, in una rete di facilities che coprivano il territorio nazionale dal Friuli alla Sicilia; il numero di personale previsto variava naturalmente a seconda della tipologia delle facilities, per molte delle quali - quelle in cui erano custoditi i depositi di materiale americano - non era prevista la presenza di alcun operatore italiano. Restava esclusa dall'accordo la regolamentazione dei quartieri generali dell'Alleanza ubicati in Italia, sottoposti ad un regime transitorio in attesa della ratifica parlamentare del Protocollo aggiuntivo (rispetto alla Convenzione di Londra) sullo statuto dei quartieri generali militari internazionali, firmato nell'agosto 1952. Sulla base di questo quadro di riferimento, la lettura delle decisioni assunte attorno agli anni 1951-1952 è più agevole. Prima però occorre dar conto di un'altra iniziativa del Governo statunitense, avviata proprio in quel periodo per ridurre il potere comunista in Italia e in Francia, nota col nome in codice «Demagnetize» (smagnetizzare). La conoscenza del contenuto del Piano ci viene da documenti del Ministero della difesa degli Stati Uniti. L'originale non è stato tuttora acquisito. Sulla base di due memorandum del 12 aprile 1952 e del 21 aprile 1952 del Segretario alla difesa, il Servizio di strategia psicologica dello stesso Ministero approvò un «piano operazioni psicologiche per la riduzione del potere comunista in francia e Italia», con la clausola che le azioni specifiche ivi contenute fossero intraprese a discrezione de Dipartimento di Stato e degli ambasciatori americani in Francia e Italia su base facoltativa piuttosto che obbligatoria. Fu costituito a Washington un comitato d'esperti a carattere consultivo al fine di sostenere e consigliare il Dipartimento di Stato e gli ambasciatori americani in Francia e Italia. In tale sede la rappresentanza della Difesa avrebbe dovuto essere fornita dall'Ufficio del segretario della Difesa. Fu prevista anche la costituzione, da parte degli ambasciatori in Francia e in Italia, di comitati di esperti analoghi a Parigi e a Roma, con la partecipazione di un rappresentante militare. Gli obiettivi del piano erano la riduzione della forza del partito comunista nei due Paesi, delle sue risorse materiali, delle organizzazioni internazionali, della influenza sui Governi francese e italiano e, in particolare, sui sindacati, nonché l'attrazione da esso esercitata sui cittadini francesi e italiani, affinchè cessasse di rappresentare una minaccia per la sicurezza della Francia e dell'Italia e per gli obiettivi degli Stati Uniti; ciò comportava anche il rafforzamento dei sindacati liberi e delle forze effettivamente democratiche. Il 14 maggio 1952 il Comitato dei Capi di Stato maggiore (JCS) fece conoscere le sue determinazioni in materia, così riassumibili: a) il Comandante in Capo del Comando USA in Europa (Uscinceur) è interessato direttamente al successo del piano; b) va quindi fornita collaborazione e sostegno adeguato agli ambasciatori americani in Francia e in Italia all'attuazione del piano; e) va assegnato, se richiesto dagli ambasciatori, un ufficiale che rappresenti il Comandante in Capo delle forze USA in Europa; d) le azioni specifiche del piano debbono essere intraprese sotto la direzione e seguendo gli orientamenti degli ambasciatori americani in Francia e in Italia; e) l'Ambasciatore può richiedere, ma non dirigere, le azioni militari che si rendessero necessarie a sostegno del piano. Il memorandum disponeva inoltre: - che la riduzione del potere comunista in Francia e in Italia doveva costituire un obiettivo di primaria importanza, da conseguire con ogni mezzo compatibile con gli scopi degli Stati Uniti; - che, dal momento che i piani avrebbero potuto apparire limitativi della sovranità e come un'ingerenza nella amministrazione interna dei governi francese e italiano, occorreva ricorrere a misure di sicurezza straordinarie; - che per questa ragione non sarebbero state distribuite copie del piano stesso nemmeno al Comando in Capo delle forze USA in Europa. Le disposizioni sarebbero venute solo dagli Ambasciatori in Francia e in Italia. Del contenuto del piano, comunque, potevano essere messi a conoscenza esclusivamente cittadini americani. Noi non siamo in grado di valutare quale percezione abbia avuto il Governo italiano del fatto che gli Stati Uniti stessero attuando un piano assai ambizioso e di forte impegno per ridurre l'influenza comunista nel nostro Paese. Sarebbe anche interessante riuscire a conoscere se e in che modo la Francia, con l'avvento del generale De Gaulle nel giugno 1958, si disimpegnò dal legame assai stretto fino ad allora intercorso, oltre che con la NATO, anche con la CIA e gli organismi similari americani. Come abbiamo visto, nel 1954 l'Amministrazione americana si dichiarò soddisfatta dei risultati che il sostegno americano aveva conseguito sul terreno della rinascita economica italiana e insoddisfatta dei risultati della politica anticomunista. Quando, nell'autunno del 1956, William Colby fu inviato in Italia a dirigere la «stazione» della CIA per le operazioni politiche, il suo compito, come lui stesso ha scritto, avrebbe dovuto consistere nell'impedire che «l'Italia cadesse nelle mani comuniste alle prossime elezioni del 1958 e nell'evitare quindi che le difese militari della NATO venissero aggirate da una quinta colonna comunista, il PCI». E in questo contesto che furono assunte le misure di carattere militare e quelle di valenza politica da parte degli americani, alcune concordate con il governo italiano, altre strettamente unilaterali. I programmi stay-behind furono senz'altro di natura multilaterale. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si proposero infatti, con una forte accelerazione all'inizio degli anni cinquanta, (si deve tener conto che con la guerra di Corea i rapporti tra i due blocchi erano divenuti assai tesi e al limite della rottura) di creare una rete di «resistenza» da lasciare «indietro» qualora fossero stati costretti ad abbandonare i paesi dell'Europa occidentale. L'iniziativa riguardò non solo i paesi dell'Alleanza atlantica, ma anche (con ogni probabilità senza il consenso dei governi) paesi neutrali come l'Austria, la Iugoslavia e la stessa Svizzera, o ostili come la Germania orientale. Stanno venendo ora a conoscenza le caratteristiche delle varie reti stay behind create in Europa. Di quella belga e di quella della Germania federale si hanno informazioni abbastanza precise, risultanti da inchieste avviate nel 1990 dai Parlamenti dei due Paesi. L'elemento «comune» appare essere quello informativo. Si volevano «lasciare indietro» strutture capaci di segnalare, mediante una sofisticata rete radio, i movimenti degli eserciti occupanti. Altrettanto prioritaria era l'esigenza di precostituire una serie di «vie di fuga» per il personale alleato rimasto nei territori occupati. Differenziate appaiono invece le strutture per compiere sabotaggi o azioni di disarmo: più forte in Italia, meno impegnative nella Germania Federale. Quello che è certo è che la rete italiana (in codice Gladio) fu avviata all'inizio del 1952. Ancora non siamo stati messi nelle condizioni di sapere quale fu il contenuto degli accordi iniziali né chi li sottoscrisse. Sappiamo che un successivo accordo del 1956 fu la «riformulazione» (restatement) di accordi stipulati negli anni precedenti. Certamente i «soggetti» principali furono la CIA da un lato e il Sifar dall'altro. Questo però non significa la non conoscenza degli impegni assunti da parte dei responsabili politici e militari delle due parti e l'assunzione delle relative responsabilità. All'epoca in Italia il Sifar dipendeva dal Capo di Stato Maggiore della Difesa e ogni operazione rilevante del servizio gli veniva sottoposta. Si deve presumere che lo stesso avvenisse per i responsabili politici, Ministro della difesa e Presidente del Consiglio. Più complessa è la «catena di comando» della parte statunitense. Vi è comunque un punto di riferimento obbligato per tutte le operazioni all'estero, il National Security Council. È attraverso questa struttura che i vari Dipartimenti e le varie agenzie ricevono le direttive e vengono coordinati. Ed è attraverso l'NSC che il Presidente degli Stati Uniti esercita il «comando sul campo». In questa struttura la CIA è rappresentata direttamente dal suo direttore (che ha anche il compito di coordinare le altre agenzie segrete), allo stesso titolo del segretario della difesa, del segretario di Stato, del segretario al tesoro e dell'assistente del Presidente per la sicurezza. Come è stato detto, il NSC serve a far sì che tutti gli attori si prestino aiuto l'un l'altro e ciascuno conosca la parte degli altri. Si può quindi affermare che quando furono impiantate le varie reti dello stay-behind negli anni cinquanta, la CIA ne fosse all'origine e ne avesse la responsabilità, ma che della iniziativa e dei compiti ne fossero pienamente informati e compartecipi anche gli alti comandi militari statunitensi in Europa e il Dipartimento di Stato con le relative Ambasciate. Nel 1951 cominciarono le varie forme di coordinamento di tutte le reti stay-behind create in Europa. Il 7 agosto 1951 Saceur (il Comando Supremo delle forze americane in Europa) propose allo Standing Group della NATO la creazione del CPC (Clandestine Planning Committee), al fine di definire il concorso, in caso di guerra, dei servizi alleati alle operazioni del Comando Alleato nel settore delle operazioni speciali. L'8 agosto 1951 si tenne a Parigi la prima riunione dello Standing Group per esaminare la proposta. Il 4 agosto 1951 lo Standing Group della NATO approvò la proposta di Saceur. Nello stesso anno fu approvato anche lo statuto del CPC. Il 5 novembre 1958 fu approvato un secondo Statuto. L'anno successivo (1959) il Sifar divenne membro associato del CPC (la domanda di passare membro effettivo era stata avanzata ai primi del 1953, ma solo dopo che il Sifar ebbe sottoscritto l'accordo del 1956 con la CIA, la richiesta era stata presa in considerazione). Nell'ambito del CPC - che aveva sede in Bruxelles, presso la sede del Servizio belga che curava il segretariato permanente - il Gruppo Esecutivo era costituito da rappresentanti dei Servizi americano, britannico, tedesco e belga che, a turno, assicuravano la Presidenza del Comitato; vi erano poi i Membri Associati: Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Grecia, Francia e Italia, nei confronti dei quali le decisioni del Gruppo Esecutivo non erano impegnative. Il 18 novembre 1959 il Clandestine Planning Committee (CPC) cambiò nome e divenne il Coordination and Planning Committee. Nel 1964 il Sifar fu ammesso anche nell'Allied Clandestine Committe (Comitato Clandestino Alleato), in codice ACC, gestito da un Comitato Principale, costituito dai capi dei Servizi o da loro rappresentanti, la cui Presidenza e Segreteria erano tenute a rotazione dai Servizi membri per un periodo di due anni. L'ACC era emanazione del CPC di cui il Sifar faceva già parte fin dal 1959. L'ACC era stato costituito nel 1958 dai rappresentanti dei servizi di Usa, Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo. La Germania Federale vi era stata ammessa in un secondo tempo, comunque prima dell'Italia. La differenza tra i due organismi era che il CPC aveva il fine di armonizzare la programmazione dei singoli Servizi membri con il comando militare della NATO e in tempo di guerra sarebbe scomparso per dar origine a quattro «Gruppi Alleati di Consulenza e Coordinamento» (ACCG), la cui predisposizione rientrava tra i suoi compiti. L'ACC invece coordinava la collaborazione tra i Servizi membri per le operazioni stay-behind, sviluppando direttive di guida, elaborando studi e dottrine e preparando l'organizzazione della Base Clandestina Alleata (furono disponibili due basi: una fìssa a Idlewood, l'altra mobile a Keylock). Il Direttore del Sifar delegò il capo dell'Ufficio R a rappresentare il servizio nel CPC, mentre il capo della sezione Sad (Gladio) fu designato dall'ACC. Il rapporto di questi organismi con la NATO è delineato chiaramente nell'appunto preparato dal governo federale tedesco per la commissione parlamentare di controllo sulla rete stay-behind e trasmesso dalla Presidenza della Repubblica alla Procura di Roma il 20 maggio scorso: «al fine di armonizzare la propria programmazione con il comando militare della NATO, i servizi di informazione interessati istituirono nel 1952 il cosiddetto «Coordinating and Planning Committee» (CPC), mentre al fine di coordinare la collaborazione tra di loro istituirono nel 1954 il cosiddetto «Allied Coordination Committee» (ACC).... Entrambi gli organismi non costituivano e non costituiscono parte integrante della NATO». Di conseguenza, nello stesso documento viene ribadito che la rete stay-behind tedesca «era ed è una precipua organizzazione e servizio di informazione tedesco (BND) e non una parte integrante della NATO. Non sussiste e non sussisteva alcun rapporto di subordinazione dei singoli servizi (nazionali) nei confronti degli organismi (di coordinamento). Questo vale anche per il caso italiano. E questo permette di chiudere la querelle sulla apposizione del segreto sui documenti relativi alla rete stay-behind costituita nel nostro paese. Dal momento che il Presidente del Consiglio ha deciso di non doversi porre alcun segreto sugli atti e sui documenti dei nostri servizi segreti, non si giustificano più le resistenze opposte alle richieste della magistratura e della nostra Commissione per la totale declassificazione della «memoria storica» riguardante Gladio. Del tutto diverso è invece il quadro di riferimento «istituzionale» della cosiddetta «guerra psicologica». Questa era materia che interessava direttamente gli Stati Maggiori delle varie Forze Armate che facevano parte della NATO. La «guerra non ortodossa» infatti avrebbe dovuto essere condotta da forze militari regolari, e la sua pianificazione risultava nei compiti del Comando supremo delle Forze alleate in Europa (SHAPE). Si trattava di addestrare e equipaggiare «forze speciali» nelle varie Forze Armate per metterle in grado di operare in territorio nemico o occupato dal nemico.
    Il 10 settembre 1963 Saceur emanò la Direttiva di base per la guerra non ortodossa e i relativi Piani delle Esigenze Operative. Il 7 giugno 1968 Saceur sostituì la vecchia Direttiva con una nuova. Questa direttiva conteneva anche norme per assicurarne la cooperazione, caso di guerra, dei vari Servizi clandestini nazionali. Era naturale, infatti, che nei territori occupati dal nemico, i reparti militari che vi fossero stati inviati potessero collegarsi con le reti clandestine predisposte. Nel 1969 fu chiesto al Capo di Stato Maggiore della difesa italiano che si avviasse un forte coordinamento tra le strutture militari e quelle dei Servizi. In seguito a questa sollecitazione il Capo di Stato Maggiore della difesa, generale Vedovato, approvò, il 1° febbraio 1969, la costituzione di un Comitato di Coordinamento Operazioni Speciali, che avrebbe dovuto comprendere i responsabili delle tre armi e quelli di Gladio. I primi contatti tra Stato Maggiore e Direzione dei Servizi fu deludente e il dialogo venne subito interrotto. Le trattative furono riprese nel 1973 e si giunse alla «promessa» di una reciproca collaborazione tra Forze Armate e SID. Solo però nel 1985 si realizzò un accordo preciso. II Sismi propose e la Difesa accettò la costituzione di un Comitato di coordinamento delle operazioni per la guerra non ortodossa. Tale Comitato fu posto in capo al Sismi (Martini), con un certo disappunto dello Stato Maggiore della Difesa. Tutto questo serve a chiarire che Gladio e gli organismi deputati alla guerra non ortodossa erano due cose diverse. La rete clandestina dello stay-behind era affare dei Servizi; le operazioni di guerra non ortodossa erano affare dei militari, degli Stati Maggiori e dei comandi NATO. Non si deve dimenticare che di fronte, con analoghe programmazioni e predisposizioni, vi erano le forze del Patto di Varsavia, e che, specie negli anni '50 e nella prima metà degli anni '60, le minacce di conflitto furono alte. Il senatore Taviani ha indicato quattro momenti critici del rapporto tra NATO e Patto di Varsavia negli anni '50 e '60. È possibile ora seguire gli sviluppi della rete stay-behind in Italia. Attorno al 1954 si cominciò a costituire la base di Capo Marargiu, in Sardegna. La CIA inviò fondi adeguati e furono innanzitutto acquisiti i terreni necessari. Per superare le difficoltà burocratiche si procedette alla costituzione di una società a responsabilità limitata. La società, che si chiamò Torre Marina, fu costituita presso il notaio De Martino e ebbe come soci il generale Musco, allora direttore del Sifar, nominato presidente, il colonnello Santini, già capo del SIOS-Aeronautica e poi addetto aeronautico a Washington e il colonnello Fettarappa, responsabile dell'Ufficio «R» del Sifar. Occorse una speciale autorizzazione del Ministro della difesa (Taviani) per consentire di derogare alle norme della legge sullo stato degli ufficiali che vietavano di possedere quote azionarie e di costituire società. Nello stesso periodo gli americani fornirono l'aereo Argo-16 per le operazioni di trasporto. Il colonnello Santini se ne servì per le necessità logistiche del Centro.
    Anche la Sezione addestramento (Sad) che aveva il compito si sovrintendere alla rete clandestina dello stay-behind e di provvedere alle esigenze tecniche e funzionali del Centro Addestramento Guastatori (CAG) creato a Capo Marargiu fu costituita prima che il Sifar sottoscrivesse con la CIA gli accordi del 26 novembre 1956. Il generale De Lorenzo autorizzò infatti la costituzione dell'Ufficio Sad il 24 settembre 1956. A dirigere la Sezione Sad fu chiamato il tenente colonnello Caudillo e al CAG fu assegnato il maggiore paracadutista Mario Accasto. La Sezione Sad dipendeva funzionalmente dall'Ufficio «R», ma di fatto aveva piena autonomia e riferiva direttamente al Capo del Servizio. Il Centro di Capo Marargiu doveva costituire anche la base operativa «ultima» della rete, e nel caso che anche la Sardegna fosse occupata, il Comando si sarebbe trasferito in Gran Bretagna, in una base già predisposta a Idlewood. È stato dichiarato da parte del Servizio che l'accordo di reciproco impegno del 26 novembre 1956 era basato «da parte statunitense, sul presupposto che i piani dello Stato Maggiore della Difesa italiano prevedessero l'attuazione di tutti gli sforzi per mantenere l'isola della Sardegna». Il 7 ottobre 1957 la CIA precisò che la difesa della base «era considerata nei piani di guerra degli Stati Uniti d'America». Intanto era intervenuto l'accordo del 26 novembre 1956, considerato l'atto fondamentale della Gladio. La segretezza dell'atto è stata a lungo difesa. Indicato prima come «rielaborazione» (restatement) di accordi avvenuti nel 1951, è stato in seguito indicato come «accordo» tout court, dal quale far partire anche la numerazione progressiva di tutti i documenti Gladio. L'accordo fissa le reciproche obbligazioni e i reciproci impegni tra il servizio statunitense e quello italiano. L'Italia avrebbe messo le basi, gli uomini e il supporto sul campo; gli Stati Uniti gran parte del finanziamento e del materiale di armamento. Agli Stati Uniti era riservata soprattutto la predisposizione dei cifrari e l'addestramento necessario per poterli adoperare. In sostanza si tratta di una intesa tra i due servizi, senza clausole di particolare impegno. Rimane incomprensibile il fatto che il documento trasmesso sia privo delle normali intestazioni proprie di documenti di questo genere e, soprattutto, che non ci siano le firme di chi lo sottoscrisse. Trattandosi di un documento rilevante al fine di determinare la «paternità statuale» dell'iniziativa assunta, il rifiuto così a lungo opposto è quanto meno poco producente. Lo stesso Presidente del Consiglio qualche dubbio lo avanza a sua volta, se è vero che afferma di trasmetterlo «così come ricevuto». Cioè privo di firme. I primi arruolamenti della Gladio furono fatti nel 1958, poche decine di unità. Intanto però era stata costituita la struttura che avrebbe «gestito» la rete, che avrebbe selezionato gli uomini, curato il loro addestramento, procurato l'armamento necessario: l'Ufficio Sad. Anche la base di Capo Marrargiu era stata ultimata. Nel 1957, dal 9 ottobre al 15 novembre, sei appartenenti alla Sad si recarono negli Stati Uniti per un corso di addestramento: i maggiori Accasto e Rossi, il capitano Ferrazzini, il tenente Castagnola, il maresciallo Cargiache. Essi furono accompagnati da un funzionario della CIA, Robert Porter, responsabile della Gladio in Italia. Così, il 1° giugno 1959 il Sifar (Ufficio R - Sezione Sad) fu in grado di riferire sui risultati ottenuti fino a quel momento. Un'ampia informativa sulla rete Gladio fu inviata alla CIA e, per l'Italia, al generale Rossi, nuovo Capo di Stato Maggiore della Difesa. Vennero innanzitutto riassunti gli scopi della struttura. La rete dei vari stay-behind era stata creata per il caso che si fosse determinata in paesi NATO una situazione di emergenza «ad opera di sovvertimenti interni o di forze militari di invasione». Ne erano derivate alcune «predisposizioni, alcune sul piano NATO, altre sul piano nazionale. Sul piano NATO la partecipazione italiana al Comitato Clandestino di Pianificazione operante presso lo SHAPE doveva servire a definire le possibilità di concorrere, nell'eventualità di una guerra, alle operazioni del Saceur (comando supremo delle forze atlantiche) nel campo delle operazioni speciali. Queste, rientranti nel concetto di «guerra non ortodossa», dovevano essere condotte da forze militari regolari. Lo Stato Maggiore Difesa italiano e Afsouth (il Comando del Sud-Europa) avrebbero concordato quindi le possibili azioni, in caso di guerra, delle forze clandestine in Italia (la rete stay-behind). A tal fine andava portato avanti il consolidamento e il potenziamento della rete Gladio. Questa era basata su di una doppia struttura: - una prima, formata da elementi destinati a «durare» nel territorio occupato, e quindi non facilmente individuabili in quanto «insospettabili»; - una seconda formata da unità di guerriglia di pronto impiego da rendere subito attive alle spalle del nemico come vere e proprie bande partigiane. La struttura clandestina era organizzata su quaranta nuclei operativi: sei informativi, dieci di sabotaggio, sei di propaganda, sei di evasione e fuga, dodici di guerriglia. I reparti di pronto impiego erano articolati invece in cinque unità (UPI), ciascuna identificata con il nome convenzionale di «Stella alpina», «Stella marina», «Rododendro», «Azalea», «Ginestra». Era previsto che «elementi della Sezione Sad effettuassero corsi di addestramento presso la scuola del servizio americano». Lo scopo indicato della rete era quello di tutelare i territori e le popolazioni che «dovessero conoscere l'occupazione e la sovversione». Andava creata «una leva di lungo braccio» e di grande portata per incoraggiare la liberazione del territorio e per «ristabilirvi i poteri legali e le istituzioni legittime». Comunque era necessario che fosse il Sifar a organizzare la rete per evitare che lo facessero «altre organizzazioni incontrollate o al servizio di interessi di partito». II documento del 1° giugno 1959 è molto importante, perchè vi sono esposti senza mascheramento gli obiettivi di fondo che si volevano perseguire: mantenere l'Italia all'interno del sistema di alleanze e del sistema di difesa costituito dalla NATO e garantito dagli Stati Uniti.



    Fermo un attimo la fedele trascrizione, per riprenderla da qualche pagina successiva :

    "Se si accetta la versione ufficiale, la forza effettiva e utilizzabile della rete Gladio fu abbastanza ridotta. Ventotto uomini nel 1958, sessanta nel 1959, centodieci nel 1960, centoquarantuno nel 1961, centosessantacinque nel 1962. Negli anni seguenti ci si stabilizzò attorno alle 250 unità. È vero che questi uomini avrebbero dovuto operare, in caso di invasione, come «catalizzatori» di altri uomini, tutti da arruolare, ma anche così i numeri sembrano assai bassi e la dislocazione del tutto squilibrata. Ma oltre al problema dei numeri, si pone quello dei criteri con cui fu organizzata e addestrata la rete «coperta» e quella di guerriglia. La prima, sulla base di quanto si voleva ottenere, avrebbe dovuto operare nella clandestinità più assoluta e più prolungata e avrebbe dovuto essere costituita da «elementi insospettabili», capaci di durare a lungo in un regime di occupazione (e quindi di delazione). Per questa rete - ha detto il generale Inzerilli - un uomo senza una gamba interessava di più di un giovane vigoroso.
    La seconda rete, invece, avendo come obiettivo lo sviluppo di azioni di guerriglia condotte nel classico modo della lotta partigiana, doveva far affidamento su uomini capaci di operare dietro le linee per colpire e poi ritirarsi in zone poco accessibili e protette. Qui erano necessarie vigoria fisica, resistenza alla fatica e grandi doti di coraggio. Le cose non sembra che siano, andate così. L'ammiraglio Martini, nella sua audizione davanti alla Commissione del 15 novembre del 1990, ha più volte dichiarato che il personale per la rete clandestina veniva selezionato sulla base di due caratteristiche fondamentali: quella di essere ovviamente di sicura fede democratica e quella, altrettanto essenziale, di avere un così «basso profilo» politico, istituzionale e sociale da non esporlo né alla cattura da parte delle forze di invasione né alla denuncia dei fiancheggiatori indigeni delle potenze occupanti: quindi né esponenti di partiti o di sindacati, né sindaci o amministratori pubblici né persone di spicco del mondo sociale o imprenditoriale. Il generale Serravalle, di contro, responsabile della Sezione Sad dal 1971 al 1974 (un periodo di grandi tensioni) ha affermato di essersi trovato di fronte ad una percentuale così alta di «teste calde», quando contattò i capi nucleo della rete clandestina, da indurlo a prendere provvedimenti per la loro «neutralizzazione» ed a spingerlo a smantellare la rete dei depositi di armi ed esplosivi per evitare che di questi qualcuno facesse un uso improprio e pericoloso. Essere una «testa calda» poteva forse andare bene per chi era chiamato a costituire le unità di pronto impiego e di guerriglia dietro le linee. Ma non era certamente una caratteristica positiva e qualificante per chi doveva «mimetizzarsi» nel territorio occupato. Nelle carte in nostro possesso non vi è distinzione alcuna tra i nuclei della rete clandestina e gli elementi delle unità di pronto impiego. In base ai criteri esposti dall'ammiraglio Martini, un uomo come il capitano (poi colonnello) Specogna, che per lunghi anni fu uno degli elementi chiave della rete stay-behind (arruolatore, custode dei Nasco, ispettore etc.), non avrebbe mai dovuto essere scelto come capo di una organizzazione così segreta che come caratteristica doveva avere la «insospettabilità» dei suoi componenti. Egli era molto fortemente caratterizzato politicamente e molto esposto pubblicamente. In prima persona Specogna aveva arruolato almeno 130 gladiatori. In buona sostanza, nella «doppia rete» i ruoli non sembrano essere stati ben ripartiti. In teoria non poteva esservi «intercambiabilità» tra i clandestini e i guerriglieri, poiché tutto poggiava su diverse «filosofie» di impiego. In pratica non si trova traccia di questa diversificazione.
    Tutti gli ufficiali che hanno deposto davanti la nostra Commissione hanno asserito con forza che di Gladio ne è sempre esistita una sola e che, indipendentemente dalle varie articolazioni e specializzazioni, l'unità strutturale e di comando è stata in ogni momento assicurata. Ma nessuno ha chiarito il rapporto tra la rete «sommersa» e quella «di superficie». Nei documenti rinvenuti (e per ultimo nel documento del Governo tedesco trasmesso dalla Presidenza della Repubblica, il fine principale delle varie reti stay-behind era quello di «trasmettere informazioni» sul nemico. Per questo le reti stay-behind erano soprattutto reti di trasmittenti radio, servite da esperti operatori radiotelegrafisti. In Italia questa rete faceva capo al centro di Olmedo (Sassari). Che consistenza ha avuto questo settore? E che sviluppo? È stato smantellato nel 1972, quando si fece cadere la rete dei Nasco, oppure è rimasto attivo? Il secondo fine della rete stay-behind era quello di predisporre vie «di fuga» per i militari alleati finiti dietro le linee, attraverso un sistema di «case sicure» e di «trasportatori» fidati. Anche qui valgono le domande di cui sopra. Perchè la rete italiana, a differenza delle altre, fu più pesantemente armata e munita di esplosivi? Sulla base degli accordi, fin dall'inizio la CIA provvide ad inviare il materiale che doveva servire a costituire le scorte di prima dotazione dei nuclei e delle unità di pronto impiego
    "

    E quà mi fermo un attimo, perchè tra poco, arriverò a delle righe importanti, che cercavo, che riportano un fatto ed una data, che mi interessava riferita al contesto che stiamo studiando approfonditamente.


    unESEIY

    Vi ricordate questo ruolino?

    FZz3vHK

    Qui a seguire la stessa parte, tradotta in italiano da Panino:

    AhzXtKE

    Ed in effetti, il Nostro, lo conferma con la sua testimonianza al Processo a Pacciani, "La prima volta che sono venuto in Italia era il '64"...
    Si era sbagliato di un anno.

    Edited by JimMorrison84 - 5/3/2021, 19:44
  15. .
    Lo sai come la penso...
    Bellini, Ciolini, Del Vuono, Spiaggiari, FN, Izzo etc. etc. messi in rapporto al Nostro, possono solo risultare pedine, non escludendo eventuali loro aderenze, sempre controllate, e strumentali.
    Per assurdo, con il Nostro puoi arrivare a pensare che lo ha fatto con FMB.
    Sulla serie dei Mostri (Firenze-Udine-Bologna-Roma-Milano), penso sia assolutamente farina del sacco del Nostro, nata per suo interesse e diletto, e probabilmente è riuscito anche a farla sfiorare e su alcuni aspetti forse anche ad integrarla ad altre realtà di cui si occupava servendo interessi maggiori, riuscendo a crearsi un'ulteriore scudo a riguardo.
    Poi mi sono fatto l'idea, che il Nostro, ai tempi d'oro, è servito a tenere sempre in riga tutti quanti...e dico tutti.

    www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/2...a-bocca/892181/

    Di chi poteva avere paura Riina? O uno dei tanti altri soggetti citati in varie faccende?

    Edited by JimMorrison84 - 5/3/2021, 13:17
435 replies since 7/1/2012
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